Cultura

«La mia cinepresa racconta Belprato e la fatica dei borghi montani»

«Prato bello» di Paolo Vinati, etnomusicologo convertito al cinema, accosta diversi stili narrativi
Una scena del documentario di Paolo Vinati
Una scena del documentario di Paolo Vinati
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Un’incursione nel cuore pulsante di Belprato, frazione di Pertica Alta e propaggine montana della Valle Sabbia. L’ha realizzata il bresciano Paolo Vinati, etnomusicologo che da qualche tempo utilizza la cinepresa per raccontare storie, «acchiappato» dai richiami antropologici, determinato a far conoscere i luoghi (anche) attraverso le persone che li abitano. La sua fatica più recente è appunto «Prato bello», che nel titolo gioca con nome, sostanza e origine del borgo (che fino al 1863 si chiamava semplicemente Prato ed è stato comune autonomo fino al 1928): un cortometraggio di 32 minuti che, dopo una proiezione sotto le stelle proprio a Belprato, e la partecipazione a festival nazionali e esteri, domani, venerdì 13 ottobre, trova una prestigiosa sede di proiezione al Museo Giacomo Bergomi di Montichiari (presso il Centro Fiera del Garda, in via Brescia 129, alle ore 21 con ingresso libero).

Abbiamo intervistato Vinati, che da tempo risiede in Alto Adige.

Vinati, qual è la genesi del progetto?

«Un’associazione del posto, “L’Anima della Pertica”, mi ha contattato per il tramite di una mia parente che da tempo ha scelto di vivere lassù, con l’idea che potessi realizzare un videoracconto dedicato a Belprato. È il ritratto di un piccolo villaggio della montagna bresciana che si specchia nella quotidianità, riflettendo su narrazioni di ieri e ritratti di oggi. Viene tracciata una linea temporale dove lo spettatore può conoscere (o riconoscere) ciò che è stato e ciò che è, facendo nascere interrogativi sul futuro dei piccoli centri montani, sempre meno popolati, toccando un tema che non riguarda soltanto la nostra provincia».

Sul versante del linguaggio cinematografico, nell’opera fa scelte inconsuete, alternando dinamismo a momenti volutamente statici, fotografici…

«È un lavoro abbastanza sperimentale, in cui ho optato per un accostamento singolare di piani narrativi diversi: le immagini sono legate al presente, mentre una voce femminile fuori campo (locale e anziana, ndr) guarda al passato. La reiterata staticità di certe immagini restituisce l’attuale staticità del territorio. Si tratta di un documentario molto minimal, che detrae anziché aggiungere, quasi il controcampo di una società in cui il troppo nausea e non lascia spazio al tuo sentire, perché tutto viene anticipato, riempito, invaso».

Un’opera che richiede uno sforzo a chi guarda…

«L’idea era proprio quella di far costruire il film allo spettatore, dargli il tempo di focalizzarsi sui personaggi che lo abitano e chiedersi cosa ci sia dietro le immagini. Ovvio che ciò richieda un impegno allo spettatore, stimolandone la curiosità».

C’è una scena in cui si sente un radiogiornale che parla delle imminenti elezioni politiche, cosa che consente di collocare nel settembre 2022 parte del girato, altrimenti neutro sul piano temporale. È stata una scelta precisa?

«Non era pianificato. L’attenzione era fissata su un abitante di Belprato che ascolta con frequenza una radio portatile: tuttavia, in fase di montaggio abbiamo ritenuto che la scena generasse senso e l’abbiamo quindi valorizzata».

Dall’etno-musicologia dei suoi studi universitari e delle prime ricerche, all’antropologia visuale di molti suoi lavori recenti. Come è avvenuto il passaggio tra queste due dimensioni e tecnologie?

«Lo strumento principe dell’etnomusicologo è il registratore. Ma da quando il digitale ha reso estremamente accessibile filmare, ho scoperto la videocamera e allargato gli orizzonti, con profitto».

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