Giuseppe Lupo racconta il suo romanzo tra Brescia, Olivetti e AI

«La storia che racconto l’ho immaginata e scritta tra uno spostamento e l’altro da Milano (dove abito) a Brescia, dove all’Università Cattolica insegno Letteratura italiana contemporanea da oltre vent’anni. Brescia, in un certo senso mi ha ispirato la vicenda e i personaggi, perché è una città con grandi possibilità economiche e culturali le cui potenzialità aumentano continuamente. Gli ha fatto un gran bene essere stata capitale della cultura nel 2023».
Del suo ultimo romanzo – il dodicesimo, oltre a undici saggi – «Storia d’amore e macchine da scrivere» (Marsilio, 224 pp., 17 euro) Giuseppe Lupo parla con una certa enfasi. La storia ruota attorno alla figura di un celebre inventore per il quale si prepara una grande festa per il 95esimo compleanno. Mente eccelsa, Sandòr Molnàr – il Vecchio Cibernetico che ha girato il mondo portando sempre con sé una Olivetti Lettera 22 simbolo dell’Italia del boom, dono di un altro grande scienziato – ha una tormentata storia d’esule alle spalle.
Scappato da Budapest nel 1956 dopo l’arrivo dei carri armati sovietici, ha vissuto studiando e lavorando in quasi tutta l’Europa con accanto un’amante sconosciuta. È stato anche in Italia a Milano e a Ivrea, dove ha conosciuto e lavorato per Adriano Olivetti, che ancora rimpiange, stabilendosi infine in Portogallo.
Qui lo segue un giornalista di origine sarda, Salante Fossi (il cui padre aveva lavorato alla Olivetti) per intervistarlo. Il vecchio ci metterà un po’ ad aprirgli mente e cuore, ma il suo negarsi è uno studiare «l’avversario» per carpirgli propositi e intenzioni. Da poco ha finito di mettere a punto una sofisticata macchina, la «Qwerty» i cui risultati rendono perplesso lui stesso, consapevole d’aver creato qualcosa di molto superiore all’intelligenza artificiale.
Abbiamo intervistato l’autore che presenterà il suo libro domenica 27 aprile in occasione dell’open day per gli 80 anni del Giornale di Brescia.
Giuseppe Lupo, quali sono le specificità del Vecchio Cibernetico?
È un costruttore tecnologico, un inventore, e un ebreo che riflette sulle tastiere, sulla scrittura e sul linguaggio. E da ebreo, ha un rapporto particolare con la scrittura, con il suo alfabeto e con gli alfabeti del mondo. Appare un po’ svampito, ma è una finta. Non ricorda che la moglie Ann Lee – la cita continuamente – è morta, ma anche questo sembra un modo per distrarre i visitatori. Il suo problema è stabilire un ordine del tempo che deriva da un disordine del linguaggio. Ha vissuto gli anni in cui c’era il teorema della complessità che appartiene a tutti i matematici e lui combatte contro la ruggine che gli sta erodendo, intaccando, rovinando la memoria. E quindi combatte contro il disordine.
Quale minaccia si nasconde dietro la sua invenzione?
Ha inventato una macchina che è al di là dell’intelligenza artificiale. Ma ha il dubbio che sia pericolosa, che possa arrecare danni a chi la usa, benché creata per facilitare la vita: come tutta la tecnologia, ci si può rivoltare contro. Contiene in sé qualcosa di magico e stregonesco. E lo dimostrerà.
La Lettera 22 è il simbolo dell’Italia operosa del boom economico?
La Lettera 22 è un oggetto iconico del Novecento. Uno di quegli oggetti immancabili nella storia del secolo scorso, non solo italiano, ma mondiale. È fantasia, tecnologia, estro, genialità: un oggetto inimitabile esposto al Moma di New York come un’opera d’arte. Con Adriano, l’Olivetti arrivò a progettare e costruire il primo computer al mondo, al quale lavorava l’ingegnere Mario Tchou, morto giovanissimo senza aver completato il suo lavoro che avrebbe dato all’Italia una supremazia tecnologica.
Si dice ci siano ombre su quella morte…
Su quella morte, per un incidente nel tratto di autostrada tra Milano e Torino, ci furono molti sospetti che continuano ancora adesso. Quando morì, l’ingegner Tchou, che era il responsabile di tutti i settori informatici dell’Olivetti - allora all’avanguardia nel mondo nel campo della tecnologia - pare stesse realizzando il primo computer tutto italiano, molto in anticipo sulla concorrenza straniera.
Cosa ha significato Adriano Olivetti con la sua azienda, per l’Italia del dopoguerra?
Ha significato innanzi tutto la presenza di un grande uomo, che ha dato al Paese un volto industriale specifico e un’altra tipologia d’industria: non quella delle grandi cattedrali, ma un’industria a misura d’uomo. Le testimonianze sono la fabbrica di Ivrea e la fabbrica giardino di Pozzuoli, imparagonabili a quelle di Bagnoli o Sesto San Giovanni. L’Olivetti rappresentava la capacità, l’artigianalità e l’arte che entra nella produzione in serie. Adriano si circondava di poeti, aveva un animo in cui sapeva sommare bellezza e utilità con straordinarie capacità direttive.
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