Cultura

Giovagnoli: «Papa Montini regista dell’unità politica dei cattolici»

Michele Busi
Docente di storia contemporanea all’Università Cattolica e uno dei più attenti studiosi delle vicende italiane del secondo Novecento è stato uno dei relatori della prima giornata del Colloquio internazionale di Studio promosso dall’Istituto Paolo VI
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Agostino Giovagnoli è stato uno dei relatori della prima giornata del Colloquio internazionale di Studio promosso dall’Istituto Paolo VI sulla democrazia e Papa Montini. Docente di storia contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e uno dei più attenti studiosi delle vicende italiane del secondo Novecento Giovagnoli ha incentrato il suo intervento sul tema «Montini e l’accompagnamento della democrazia italiana».

Professore lei ha ricordato che, dopo la Liberazione, il futuro Pontefice si prodigò per ottenere il consenso all’unità politica dei cattolici. È così?

Sì. La situazione del dopoguerra era molto incerta e frammentata. Da una parte c’era l’eredità del fascismo, dall’altra una presenza comunista molto forte, percepita come minaccia. La frammentazione dei cattolici avrebbe rappresentato un problema. Montini invece si adoperò perché i cattolici entrassero in politica in modo unitario. In questo modo, immaginava - e immaginava bene - che si sarebbe favorita una transizione non traumatica, non violenta, dal fascismo alla democrazia. Cioè da una società molto conservatrice, abituata all’autorità, a una società capace di valorizzare pluralismo e libertà. In questo senso fu lungimirante. Ho parlato di un «Papa regista» perché non si limitava a interventi sporadici, ma aveva uno sguardo più ampio.

Lei ha individuato tre fasi: Montini Sostituto in Segreteria di Stato, Arcivescovo di Milano e Papa. La prima fase è stata già molto studiata. Può ricordarci le altre due, in particolare quella milanese?

La fase milanese va dal 1954 al 1963 e coincise con il lungo dibattito che preparò l’avvento del centro-sinistra, cioè l’apertura all’alleanza tra socialisti e democristiani. Montini affrontò questo problema non solo nel merito politico, ma soprattutto come crescita del laicato cattolico, perché acquisisse maggiore coscienza delle sue responsabilità. Fu una scelta educativa: inizialmente, come molti altri vescovi, si oppose al centro-sinistra, ritenendolo prematuro negli anni ’50. Ma con il mutare della situazione - l’Italia, i partiti, la società - a partire dal 1961 accompagnò l’avvento del centro-sinistra. Una volta diventato Papa continuò su quella strada, ritenendola giusta e irreversibile.

Nonostante qualche sconfitta elettorale, Montini indicò comunque la linea politica, persino al segretario della Democrazia cristiana, all’epoca Mariano Rumor.

Esatto. Non siamo più abituati a queste cose, ma è significativo che Paolo VI fosse molto esplicito nell’indicare la linea di fondo. Non sappiamo quanti altri colloqui ci furono, ma è certo che il suo ruolo fu decisivo.

Questo fino al 1968 e poi fino al referendum sul divorzio. Dopo Paolo VI sembra occuparsi meno direttamente della politica italiana.

Direi di sì. Dal 1968 al 1974 furono anni difficili. Era l’Italia della contestazione, in cui l’autorità veniva messa in discussione. Per Montini era difficile accettarlo: non voleva un’autorità eccessiva o puramente esteriore, ma riteneva che l’autorità fosse necessaria. Il mondo del ’68 diceva il contrario. Il referendum del 1974 fu clamoroso: su una questione centrale per la Chiesa, come l’indissolubilità del matrimonio, il 59% degli italiani votò contro. La situazione era cambiata e Montini capì che bisognava cercare altre strade. Si affidò molto ai vescovi italiani e al ruolo di Aldo Moro, tra il 1976 e il 1978.

In tutto questo percorso, possiamo dire che la Democrazia cristiana fu lo strumento con cui Montini accompagnò la democrazia italiana?

Sì, direi di sì. Vedeva la DC come lo strumento politico attraverso cui i cattolici potevano accompagnare lo sviluppo della democrazia italiana.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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