Una lettera «sottosopra»

Zio Berto con la zeta proprio non ci andava d’accordo: «Roba per zet che gh’a stüdiat! Me gh’o fat apena la quinta». Quando – raramente – gli toccava di parlare in italiano e si imbatteva in parole con la zeta (ragazzi, zucca…), gli usciva fuori un suono strascicato che faceva sibilare sottotono, tra labbra e denti, quasi con vergogna: «Io sono venuto su col dialetto – diceva – e la “zeta” in dialetto non c’è proprio!».
Diceva bene lo zio Berto? Sì e no: in effetti nessun vocabolo bresciano contiene i suoni che la zeta ha in italiano. Non è raro però che essi si generino nell’incontro di due parole (il fenomeno si chiama assimilazione). Ma andiamo al concreto: se dico gh’o le stomec sot-sura (Ho lo stomaco sottosopra), pronuncio in realtà sozzùra, proprio con la zeta sorda, quella di ragazzi (volendo, si potrebbe fare un esempio anche con la zeta sonora, quella di zucca).
Ebbene: lo zio, quando esagerava col salame – ne era golosissimo! – e aveva appunto le stomec sotsura, la zeta la articolava inconsapevolmente perfetta. Il suo non era insomma un problema di pronuncia. Rileggete la poesia di Elena Alberti Nulli La mort del dialèt: vi ritroverete anche mio zio, uno di quelli nasicc en dialèt / pà e dialèt / stala e dialèt / miniera e dialèt; che, sapendosi esprimere solo in dialetto, davanti al maestro, al prete, al sindaco, arrossivano mortificati.
Noi, che, grazie anche a quelli come il Berto, nella vita abbiamo avuto la fortuna di andare oltre la quinta (e il dialetto spesso lo portiamo come ‘n anèl al dit), il loro ricordo lo dobbiamo custodire nel cuore e nella mente, gelosamente.
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