Un tetto di patate più forte del tempo

Storia linguistica davvero interessantissima quella che sta dietro al termine scalitì, con il quale la parlata dei nostri nonni indica le «scaglie» di mais che rimangono attaccate ai bordi del paröl quando si streàca la polenta. Abbiamo iniziato a percorrerla - questa storia - domenica scorsa, arrivando però solo a metà strada.
Scalitì, ci eravamo detti, è una «piccola scaglia» e deriva dal gotico «skalja» proprio come scàia. Oggi scopriamo che in alcune aree montane il termine si adatta anche a indicare le tegole in pietra di baite e vecchie case: a Bagolino come a Pontedilegno, ad esempio, sono le scàe. Scaglie piatte di ardesia, o comunque di pietra scistosa. Vederle realizzare a mano è un regalo per gli occhi e per l’anima. Quando invece sono di legno (solitamente larice o castagno) le tegole montane sono dette scàndole. Proprio come in Trentino. E proprio come in latino: le «scandulae» erano esattamente le assicelle per i tetti. Ma torniamo alla tegola piatta in pietra. Che proprio perché piatta viene chiamata anche plöda oppure piöda. L’origine latina è nell’aggettivo «plauta», da cui deriva anche il modo scherzoso - piòte - con cui i bresciani indicavano i piedi (m’è tocàt endà a piòte...).
Ma non è finita qui. Esattamente come era accaduto per scalitì, anche per le piöde esiste una gustosa parentela tra la copertura dei tetti e la tavola. A Monno, ad esempio, le piöde sono anche una ricetta tipica: una sorta di gnocchi di farina di patate lavorati in modo da avere lo spessore di non più di un centimetro e la forma piatta della scaglia. Vanno condite con formaggio e burro di malga. Sapori che resistono al passare del tempo e delle mode. Proprio come tegole di pietra.
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