Fermo nel traffico ricordando mais e sassi

Il manifesto pubblicitario, a caratteri cubitali, mi guarda dall’alto del cavalcavia mentre resto imbottigliato nel traffico puntuale della Tangenziale Ovest: la brescianissima Valledoro (storica azienda di prodotti da forno che non ha certo bisogno di queste mie poche righe per farsi conoscere sul mercato) presenta i suoi scalitì di farina di mais. Bresciana l’azienda, bresciano il nome del prodotto.
La macchina è ferma, ma la mia memoria sensoriale fa un deciso salto all’indietro nei sapori: gli scalitì erano (sono) quelle crosticine di polenta che restano a fine cottura sulle pareti del paröl. Vanno staccate a freddo e sgranocchiate con calma. Possono avere un lieve tocco di bruciaticcio (apprezzato solo da intenditori) e sanno di antico. Qualcuno le intinge nel latte. In alcune aree montane della nostra provincia vengono chiamate anche biàdeghe.
Ma da dove arriva il termine scalitì? Non certo da un legame con la parola dialettale che indica la piccola scala: il suono è identico, ma l’origine proprio no. Quando indica gli stuzzichini di polenta, il termine scalitì significa «scaglia» (la radice è il gotico «skalja») ed è parente di quello che da ragazzi usavamo per un gioco da cortile: sgàia (qualcuno lo chiamava, appunto, anche scalèta). Si trattava di gettare piccole scaglie piatte (di sasso, di mattone, o magari figurine dei calciatori) contro un muro, e chi gettava la propria sopra quella dell’avversario vinceva (e si intascava le figurine altrui).
Una vicenda linguistica davvero piena di significati e di storia, questa degli scalitì. Ma ci torneremo la settimana prossima. Adesso il traffico si muove e io torno a casa per cena: si potrebbe fare polenta...
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