Le vacche nere di Hegel e la scelta de fa sìto
«Fa sìto», fare silenzio. Potenza del dialetto: gli basta una espressione minuscola per definire un intero universo di valori. Ne ho avuto l’ennesima conferma pochi giorni fa, alla cerimonia per il Premio di poesia Santi Faustino e Giovita promossa da Fondazione Civiltà Bresciana. Il primo riconoscimento è andato a «Dezèmber» di Armando Azzini, intima e pur sorridente poesia sui giorni densi che il calendario concentra fra il Natale e il Capodanno. La trovate, recitata dall’autore stesso, in cover a questo articolo (vi ricoridamo che la rubrica Dialèktika ha un suo spazio con anche i contenuti video).
Due versi della poesia recitano: «a Fèsta Alta ’l silensiùs fa sìto / deànti ala Cüna de fé». La parola dialettale sìto è parente dell’italiano «zitto». Però in italiano si tratta di un aggettivo («egli è zitto») mentre in dialetto il termine torna solo nell’espressione «fa sìto». Fare silenzio. Il dialetto non vede il silenzio come un semplice stato, ma piuttosto come una azione. Il «fa sìto» è un comportamento, un’attività, un gesto denso di significato. È figlio di una volontà e di una scelta chiare. C’è un tempo per parlare e un tempo per «fa sìto».
Ce lo siamo dimenticato in questo nostro tempo della comunicazione continua: nel rumore di fondo di troppe parole, nessuna parola ha più peso. Ce l’ha insegnato Hegel: in una notte nera tutte le vacche sono nere. Diventano indistinguibili. Invece il dialetto conosceva il senso delle parole, sapeva che di fronte a ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Parlare quando serve, per il resto «fa sìto». Insomma: «Paròle póche e fa ’nà le óche».
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