Le parole della vigna contro l'ignoranza

Si fa alla svelta a essere ignoranti. E io lo sono stato (sia chiaro: ignorante nel senso di «chi ignora», non di gnurànt con la gnu maiuscola). Ma anche chi ignora può imparare. E io ho imparato - una volta di più - che la cultura materiale del mondo contadino dei nostri nonni, che parlava solo dialetto, usava mille termini di incredibile precisione che nella nostra memoria sono ormai opachi. E che nei vocabolari compaiono raramente.
Tutto parte dal termine tràpe, che - scrivevo io un paio di domeniche fa basandomi sulla mia inaffidabile memoria e su un peraltro affidabile dizionario - in Franciacorta indica la vigna, e in particolare il tralcio della vite. «Errore - mi scrive Renato da Provaglio, nato in una famiglia di vignaioli -: la tràpa è il tronco della vite, mentre il tralcio è il madér».
Condivido coi lettori la precisazione. Ma non è finita: grazie ad Alice ho guardato più da vicino anche il vocabolario dei vignaioli gardesani. A Bedizzole i vigneti sono le égne, i filari i fìi dele égne, i pali di testa sono le curùne ma possono essere chiamati anche stàche. L’innesto è l’encàlma, il grappolo la gràta, l’inflorescenza el resémbol. Il gambo del grappolo è el pecàl mentre le vinacce le gràte. La malattia dell’oidio è el mal del sùlfer.
A Polpenazze - spiegano alcuni indigeni - i vigneti sono le végne, i filari i fü, al singolare èn filér oppure èn fil. Il peduncolo d’uva è èl pégol mentre il tralcio el có de végna. Il grappolo senza acini la ràspa e i germogli i papègn. Le bucce dell’acino sono le fulìse mentre i vinaccioli i vinasöi. Che spettacolo. Va celebrato. Dopo tanta vigna sento che mi concederò un bicér del chèl bu. Prosit.
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