El lùf dal bosco e l'alegrìa del frèt

«El pàr che ’l völes fiocà...», «E té làsa che ’l fiòche!». Capitava, nei pomeriggi d’inverno, che qualche vecchio in paese guardasse il cielo e annusasse aria di neve. E immancabile arrivava la chiosa di chi - con ironia - suggeriva di consentire al tempo di fare quel che voleva. Come se - e il gioco stava tutto qui - fosse possibile all’uomo incidere sul meteo.
Se è vero che linguaggio e modi di dire raccontano una cultura, dobbiamo ammettere che l’antico bagaglio dialettale di conoscenze su clima e stagioni è quello che meno regge il trascorrere degli anni. «La néf dizimbrìna tré més la confìna», la neve di dicembre resiste fino a tutto febbraio. Forse un tempo, ormai... E ancora: «A l’Epifanìa anche ’l frèt l’è n’alegrìa». Quale freddo? Termometro di fatto mai sotto lo zero.
Il ciclo di estati torride e inverni ghiacciati - ad esempio - era preso a simbolo di un eterno ritorno. Inarrestatibile e sempre identico a se stesso. Tanto che - si diceva - «el càlt e el frèt i-a màngia mìa ’l lùf», il caldo e il freddo non li mangia il lupo: ritornano sempre.
E invece le estati sono sempre più calde (è non è una citazione dal «Dizionario dei luoghi comuni» di Gustave Flaubert) mentre i freddi inverni di neve sono sempre più rari. E il responsabile non è il lupo. Per secoli abbiamo cantato che «sàlta föra ’l lùf dal bosco / con la barba néra néra»: un cupo simbolo di selvatica irrazionalità che strappa alla pastora «el sò busì pö bèl che la g’avéva».
Stavolta non è stato il lupo uscito dal bosco a mangiarsi il freddo. Stavolta siamo stati noi, razionali esseri umani. Ci siamo riusciti: abbiamo inciso sul meteo. E stavolta di ironico non c’è proprio niente.
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