Che vegnel a costà en zio custù?

Anche il dialetto, come ogni lingua, cela talvolta, sotto il senso comune di un vocabolo, significati che ci giungono da epoche lontane, quando il mondo camminava per sentieri diversi da quelli di oggi. Lo sperimentiamo, ad esempio, nel lessico delle dinamiche familiari. Ai tempi in cui rivolgere la parola a una signorina in pubblico era ritenuto sconveniente, il fidanzamento era sancito dalla possibilità di poter conversare liberamente: i se parla, el ghe discùr. Quando poi veniva il momento del matrimonio, spesso un contratto tra famiglie dove l’aspetto economico aveva il suo peso, «sposare» – soprattutto se riferito all’uomo – si diceva tö, ovvero «prendere»: el gh’a töt la Cia, (Ha sposato Lucia). Per la donna invece si preferiva dire che la s’ira maridada. Non si dimentichi poi che la spusa nel «dialetto classico» non è la sposa (che è la moér o la fonna/fomna), ma piuttosto la nuora; il marito invece è semplicemente… el me om. Poi arrivavano i figli, che ampliavano la famiglia ed erano in prospettiva altre braccia da destinare al lavoro; e allora mettere al mondo una creatura si diceva cumprà, ovvero acquistare: la cumpra el mes che vé (Partorirà il mese prossimo).
Rimaniamo in argomento: per ricordare che di una donna era ormai alla fine della gravidanza, si diceva la gh’à de malas (si deve ammalare), forse perché comunque il parto – il letto, la levatrice, il riposo ecc. – richiamava l’esperienza della malattia.
Famiglie allargate? Sì, ma appena appena e non oltre el zio custù, un vicino o un amico cui, per affetto, veniva riconosciuto uno status quasi parentale.
Buon Natale a tutti!
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