Al falegname noi ci diciamo «maringù»

E rintoppa, o Marangone / L’Arcipoggia, e l’Artimone / Che la nave se ne và / Colà, dove è il finimondo / E forse anco un po più in là: così cantava Francesco Redi nel suo Bacco in Toscana.
Il Marangone?!
Sì, è proprio lui, il nostro maringù, termine con cui il bresciano designa il falegname. Il termine proviene – come accade spesso – dalla “nostra” Venezia (di cui noi bresciani siamo stati sudditi fino al 1797): Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani… (Inferno XXI): nell’arsenale di Venezia ovviamente si riparavano le navi; e impegnati in questa operazione vi erano anche dei falegnami “specializzati”, capaci, quando non era possibile portare gli scafi in secca, di lavorare sott’acqua: chi fa suo legno novo e chi ristoppa / a quel che più viaggi fece // chi ribatte da proda e chi da poppa (è sempre Dante).
Questi carpentieri, a chi li osservava lavorare, ricordavano un uccello acquatico, lo smergo, detto appunto in veneto marangone (più noto in italiano come cormorano), uccello che, per catturare i pesci di cui si nutre, si tuffa e sparisce a lungo sotto il pelo dell’acqua. Con il passar del tempo poi il marangone – e quindi anche il nostro maringù – … è uscito dall’acqua ed è diventato il falegname tout court. E fino alla caduta del Governo veneto vi era a Brescia il paratico (ovvero la corporazione) dei marangoni, tra cui i marangoni a lignamine (i falegnami appunto).
(Preciso che non tutti concordano con questa etimologia; ma l’ipotesi è comunque affascinante e, seppur con beneficio di inventario, è valsa la pena conoscerla).
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