«Department Q», «Il Gattopardo» e gli altri libri da leggere a giugno

I film e le serie tv tratte dai libri vanno sempre molto bene. Prendiamo «L’amica geniale», «Harry Potter», «Normal people», «Tutto chiede salvezza»… Anche nel 2025 stiamo vedendo diversi prodotti di questo tipo. Su tutti: «Il Gattopardo» e il recentissimo «Department Q». Entrambe le serie sono prodotte e distribuite da Netflix ed entrambe sono tratte da romanzi recensiti questo mese dalle giornaliste e dai giornalisti del Giornale di Brescia.
Nel bookclub questo mese i consigli sono diversi: oltre ai primi due libri citati ci sono un true crime italiano che ripercorre una vicenda nera della Milano negli anni Quaranta, un saggio per imparare meglio e più facilmente l’inglese, una storia «da lacrimoni, rabbia e whisky scadente» e un saggio-raccolta di racconti dedicati al Reno, scritto dal giornalista e scrittore nederlandese Mathijs Deen.
«La donna in gabbia»
di Jussi Adler Olsen
(traduzione di Maria Valeria D’Avino, Marsilio/Universale economica Feltrinelli, 2011, pp. 380, 11,40 euro)

La misteriosa scomparsa di una giovane donna svanita nel nulla come un gioco di prestigio, mentre è a bordo di un traghetto in navigazione nel mare del Nord. Un detective spezzato, rientrato in servizio dopo essere rimasto vittima di un agguato feroce. Una segretaria eccentrica e un rifugiato di origine araba dal passato misterioso e dai molteplici talenti. Una miscela in apparenza zoppicante, forse pure in apparenza indigeribile, ma che è invece il fondamento su cui il talentuoso giallista danese Jussi Adler Olsen ha costruito la sua fortuna. Era il 2007, anno di pubblicazione di «Kvinden i buret», che in Italia sarebbe arrivato nel 2011 per Marsilio con il titolo «La donna in gabbia». Quello stesso romanzo che racconta la genesi della Sezione Q, che indaga delitti irrisolti agli ordini del tormentato detective Carl Mørck.
Un romanzo accattivante, con le caratteristiche del thriller e un finale da giallo, che ha tracciato i confini dell’universo entro cui il burattinaio Adler Olsen muove i suoi tormentati personaggi, ognuno profondamente ferito a modo suo. Lo stesso romanzo che è stato trasposto già trasposto per il cinema in Nord Europa e che è approdato ora su Neflix, con un curioso scarto narrativo. Se L’intreccio è stato mantenuto fedelmente, all’ambientazione danese ne è stata preferita una scozzese, pur mantenendo nomi che suonano a tratti poco British.
E se il ciclo letterario è giusto al capolinea solo pochi mesi fa, come vi abbiamo raccontato in un precedente book club, con la recensione di «Locked in», sospettiamo che il successo cinematografico sia solo all’inizio.
Ilaria Rossi, redattrice Cronaca
«Il Gattopardo»
Di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
(Feltrinelli, 2025, pp. 304, 17 euro)

Qualche settimana fa su Netflix è arrivato il nuovo adattamento tivù del «Gattopardo». Uno di quei libri che talvolta si finge di aver letto e che, una volta letto, porta a chiedersi perché non lo si sia fatto prima. La serie può essere quindi l’occasione giusta per riprenderlo in mano (o ascoltarlo letto da Toni Servillo su Audible): è un romanzo pacato ma denso, scorrevole seppur arcaico. La voce narrante accompagna la decadenza della nobiltà siciliana con uno sguardo ampio, lucido, malinconico, privo di sentimentalismi. L’aristocrazia descritta da Tomasi di Lampedusa è consapevole del proprio tramonto, ma non cerca di opporvisi: lo osserva, lo commenta, lo accetta, cercando al contempo di manovrare il cambiamento.
I fatti narrati non sono contemporanei alla scrittura (a un certo punto c’è una metafora su un aeroplano): Tomasi di Lampedusa, nobile siciliano, stese il romanzo negli anni Cinquanta guardando indietro all’Ottocento, e in particolare al momento dell’unificazione d’Italia e al ruolo che l’aristocrazia meridionale ebbe – o non ebbe – in quel passaggio storico. Il protagonista, il principe Fabrizio di Salina, è una figura di grande fascino letterario: crepuscolare, ironico, distaccato. Un uomo che all’arrivo dei Garibaldini vede cambiare il mondo intorno a sé e intuisce che la sopravvivenza della propria classe passa solo attraverso l’adattamento. Il celebre paradosso del «cambiare tutto perché nulla cambi» riassume l’intero spirito del libro.
Anche la sua storia editoriale è interessante: ad accorgersi della potenza letteraria e commerciale del libro fu Elena Croce, figlia di Benedetto e scrittrice, che inviò il dattiloscritto all’amico Giorgio Bassani. Bassani era all’epoca direttore della collana I Contemporanei di Feltrinelli. Einaudi e Mondadori avevano rifiutato il romanzo e sia Croce che Bassani non comprendevano il motivo. Nel novembre del 1958, dunque, Feltrinelli lo pubblicò: Tomasi di Lampedusa era morto poco prima che Croce leggesse il suo lavoro. L’anno successivo, nel 1959, «Il Gattopardo» vinse il premio Strega e fu tirato a 250mila copie. E ancora oggi resta uno dei romanzi italiani più letti, citati e tradotti del Novecento. La sua forza non sta tanto nella trama, quanto nell’atmosfera, nei dialoghi sospesi, nelle riflessioni sulla morte, il potere e il tempo che scorre.
«La belva di San Gregorio. Il caso di Rina Fort»
Di Marta Barattia
(Giunti, 2025, pp. 192, 14,90 euro, e-book 9,99 euro)

Quando la cronaca nera produce storie che nemmeno la letteratura. Quando la nera diventa materia letteraria. E non è più «solo» nera. È l’operazione che si sta realizzando con la collana «Nero 900» di Giunti, a cura di Gianni Biondillo, di cui è recentemente uscito «La belva di via San Gregorio. Il caso di Rina Fort». L’autrice, Marta Barattia, racconta una vicenda risalente agli anni Quaranta del Novecento, ma che qualcuno ancora ricorda per averne sentito dire o letto (memorabili gli articoli di Dino Buzzati per il Corriere della sera).
Via San Gregorio è la strada di Milano, nella zona di Porta Venezia, dove la sera del 29 novembre 1946, al numero 40, si consuma un quadruplice, orrendo omicidio: una donna viene massacrata a colpi di spranga con i suoi tre bambini. Era appena arrivata dalla Sicilia per ricongiungersi al marito emigrato per lavoro. I sospetti si concentrano subito su Rina Fort, l’amante del marito. Originaria di un piccolo paese del Friuli, la donna ha un passato disgraziato, ma a Milano ha trovato quel Giuseppe-Pippo Ricciardi che, in assenza della legittima consorte, la presenta addirittura come sua moglie.
Rina Fort all’inizio nega, poi crolla confessando parzialmente; ma è solo la prima delle numerose, confuse versioni da lei rese su quanto è accaduto nella casa di via San Gregorio. Condannata all’ergastolo, sarà graziata dal presidente della Repubblica nel 1975 e morirà nel 1988.
La vicenda della «belva di via San Gregorio» suscitò profondo sgomento e scalpore nell’Italia del dopoguerra, in cui peraltro si affermava la cronaca nera dopo la frenata imposta alle cattive notizie dal regime fascista; e negli anni è stata raccontata da voci diverse, com’è evidente nel ricco apparato di fonti bibliografiche del volume edito da Giunti. Ma nel racconto di Barattia trova nuovo respiro. Prima di tutto per la tecnica di narrazione, con capitoli che non seguono l’ordine cronologico degli avvenimenti, accompagnando chi legge in una ricostruzione originale rispetto alla cronaca (pur non inventando nulla) e avvincente. E poi, soprattutto, per lo sguardo riservato alla «belva»: una donna sempre vissuta in gabbia (come tutte le altre del tempo, suggerisce esplicitamente il capitolo dal titolo «Voliera»), a cui l’autrice non fa sconti ma che si sforza di descrivere nella sua interezza, restituendo un personaggio di fatto predestinato alla tragedia. Sullo sfondo c’è la Milano della seconda metà degli anni Quaranta, mentre s’intreccia con la storia di Rina Fort un giornalismo privo di regole al punto da spacciare per vera una fotografia costruita ad arte.
Francesca Sandrini, vicecaposervizio Cronaca
«Sei nato bilingue»
Di Giulia Gorgoglione
(Fausto Lupetti Editore, 2025, pp. 122, 16 euro)

«Sono negato per le lingue», «Se non impari da piccolo è troppo tardi», «Bisogna vivere all’estero per parlare davvero inglese». Frasi che suonano familiari? Sono solo alcune delle convinzioni limitanti che ci raccontiamo da anni. Ma che cosa succederebbe se fossero semplicemente… false? È proprio da qui che parte «Sei nato bilingue», il libro di Giulia Gorgoglione che smonta con entusiasmo e competenza i falsi miti sull’apprendimento dell’inglese, restituendo fiducia e motivazione a chi ha sempre pensato di non potercela fare.
Non si tratta solo di imparare una lingua, ma di cambiare mentalità: perché, spiega l’autrice, «tutto parte dalla testa». Con tono empatico e mai giudicante, Gorgoglione accompagna il lettore in un percorso di consapevolezza e trasformazione. L’obiettivo è superare quel blocco mentale che tanti italiani vivono quando devono parlare inglese: frustrazione, senso di inadeguatezza, vergogna. Blocchi interiori che diventano muri, e che la stessa autrice – insegnante e divulgatrice – ha vissuto sulla propria pelle prima di trasformarli in una missione. Nel libro, l’approccio motivazionale si alterna a strumenti concreti: esercizi, esempi, tecniche per allenare la mente ad accogliere nuove convinzioni potenzianti. Perché, ribadisce l’autrice, finché non si lavora sulla mente, nessun metodo o corso sarà davvero efficace. È solo cambiando il modo in cui ci parliamo – e ci percepiamo – che possiamo aprirci all’apprendimento con serenità. Il risultato è un libro che non solo aiuta a riscoprire la fiducia nelle proprie capacità, ma accende anche la curiosità verso una lingua che, se vissuta con il giusto atteggiamento, può diventare una vera alleata nella vita quotidiana, professionale e personale. Dopo la lettura, viene voglia di provarci davvero, e di farlo con entusiasmo.
Marco Tedoldi, redattore Cronaca
«Il tallone da killer»
Di Alessandro Robecchi
(Sellerio, 2025, pp. 352, 16 euro)

Alessandro Robecchi non ama i protagonisti scontati. Così, lasciando in panchina (almeno per ora) il suo celeberrimo Carlo Monterossi, sfrutta due personaggi di contorno di un precedente romanzo per reinventarsi narratori di… killer di professione. «Il tallone da killer» è proprio il racconto delle imprese di Quello con la cravatta e il Biondo (niente nomi, sia chiaro), due curiosi animali a sangue freddo che tra tariffe da ritoccare e clienti da trovare si muovono in una zona grigia dove uccidere è solo una questione di business. Rapida, asettica. Almeno fino a quando una donna gli chiede di ammazzare il proprio amante. Innescando una cascata di guai, imprevisti, scontri e violenza, il tutto stemperato dall’ironia. Per un epilogo che non sorprende, ma non delude.
Un Robecchi meno a fuoco che in altri romanzi trova comunque anche stavolta il modo per piazzare qualche zampata di classe. Che sia nata una nuova coppia d’oro di protagonisti? Le premesse ci sono tutte, almeno finché morte… non li tenga più uniti.
Rosario Rampulla, vicecaporedattore
«Estate»
Di René Frégni
(Traduzione di Chiara Zonghetti, Meridiano Zero, 2010, pp.159, 12 euro)

«My way» di Frank Sinatra è in realtà l’adattamento in inglese, con testo di Paul Anka, del brano composto dal francese Jacques Revaux e portato al successo per la prima volta da Claude François nel 1967, che ne scrisse le parole originarie assieme a Gilles Thibaut. Il titolo, dall’ossessivo ritornello, recita «Comme d’habitude»: si tratta dello struggente racconto di un addio (quello nella fattispecie dello stesso cantautore, da poco lasciato da France Gall, altra cantante d’Oltralpe). François, che era nato in Egitto da madre di origini italiane – Lucia Mazzei, calabrese di Ismailia, città affacciata sul Canale di Suez –, ne cantò anche una versione in italiano (il testo – ho scoperto googlando – è di Andrea Lo Vecchio, l’autore della melodia di «Luci a San Siro» di Vecchioni). Il titolo? «Come sempre».
La storia è da lacrimoni, rabbia e whisky scadente consumati in un bar in cui qualcuno fuma impunemente al buio di una lampadina complicemente distratta: mentre lui, come sempre, si profonde in piccole grandi attenzioni, lei, ineffabilmente bella, come sempre, non lo guarda, non capisce, non c’è. Ecco, mi ha fatto venire in mente questa canzone la lettura di «Estate» di René Frégni. Paul, piccolo ristoratore e protagonista del romanzo, in un luminoso aprile della Costa Azzurra conosce per caso la magnetica Sylvia. Una belle dame sans merci che catalizza ogni sua energia, salvo svanire e farsi sfuggente, per poi cercarlo nuovamente e avvolgerlo in un turbinio di sensualità e sconvolgenti rivelazioni. Compresa quella che lei ha un altro, un artista, che ama ricambiata. Cosa di cui il protagonista dubita, visto che – lei gli racconta –, quello non esita a picchiarla. La primavera rotola in un’estate resa soffocante non solo dal Mediterraneo arroventato, ma dalla trappola noir in cui Paul e il lettore precipitano, come fosse un pozzo ricolmo di gelosie intrecciate a disperazione e smarrimenti. Frégni, maestro del genere ed epigono di Izzo e Manchette, non manca di regalarci un finale imprevedibile. Ben diverso da quello di «Come sempre», in cui lei torna e l’amore trionfa. Come sempre. O come almeno era convinto dovesse essere François (che poi è quello di «Piange il telefono» di Modugno, per intenderci).
Gianluca Gallinari, caporedattore
«Il fiume infinito. Storie del regno del Reno»
Di Methijs Deen
(Traduzione di Chiara Nardo, Iperborea, 2025, pp. 416, 20 euro)

Un saggio e insieme una raccolta di racconti. «Il fiume infinito. Storie del regno del Reno» del giornalista e scrittore nederlandese Mathijs Deen, nell’elegante e compatta edizione Iperborea, è un viaggio nel cuore dell’Europa e del pianeta terra, dagli albori ai giorni nostri. Un navigare lieve e appassionante, trasversale a molte discipline, dalla storia all'antropologia, dalla geografia alla paleontologia, dalla sociologia alla biologia. Un libro consigliato per chi ama viaggiare e pure per i pigri che detestano farlo: grazie ad esse si percorrono ere geologiche e migliaia di chilometri restando comodamente seduti o sdraiati.
Una frase che abbiamo sottolineato: «Nulla è irreparabile per chi ha pazienza». La sintesi perfetta di ciò che si impara leggendolo, cioè che la nostra dimensione temporale – quella del ciclo di vita di ciascuno di noi, ma altresì la presenza dell'essere umano sulla terra – è inadatta a considerare appieno eventi e fenomeni di portata superiore, in sintonia con il respiro del pianeta. L’autore lo dichiara schiettamente, spiegando che la prima cosa che ha imparato è: il Reno, come ogni grande fiume, non è l’alveo che lo contiene, bensì l'intero bacino idrografico, la porzione di terra che raccoglie ogni singola goccia d’acqua da mille rivoli e la porta al mare. Non una linea dunque, bensì una ramificazione. Una venatura che muta ma non cessa, essendo cominciata dal primo istante in cui una goccia di pioggia è caduta dal cielo, cinquecento milioni di anni dopo che la Terra è stata creata, e che cesserà quando al collassare del Sole, tra miliardi anni, questa sfera che noi abbiamo per casa verrà spazzata via.
Riassumendo: se vi annoiano le storie monotone, se siete incerti tra un saggio e un romanzo, se alla curiosità di conoscere si somma il piacere della buona lettura, «Il fiume infinito» si potrebbe rivelare una scelta azzeccata. Ed è pure un ottimo compagno sotto l'ombrellone, consentendovi di viaggiare nel tempo e nello spazio senza dovervi muovere di un metro.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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