Cultura

La riedizione di Eshkol Nevo, Adler-Olsen e altri libri consigliati per febbraio

A cura di Sara Polotti e Ilaria Rossi
Il capitolo conclusivo della «Sezione Q», la curiosa biografia di Cesare Lombroso e il piccolo capolavoro di Tito Antonio Spagnol fra le letture della redazione
Una libreria dal design nordico
Una libreria dal design nordico
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Nell’inverno 2024-2025 non ci sono state solo interessanti uscite editoriali, ma anche notizie piuttosto succose riguardanti uno di quegli aspetti che per lettori e lettrici non è slegato dal piacere stesso della lettura, ovvero tutto ciò che riguarda il design di mobili destinati, appunto, ai libri.

Ci riferiamo alla news riguardante uno degli scaffali più iconici di Ikea, la famosa libreria disegnata negli anni Novanta – e diffusasi nei primi Duemila – di Niels Gammelgaard. Allora si chiamava Enetri ed era disponibile in colorazioni basiche (legno, grigia, bianca o nera). Oggi la si trova sui siti di vendita di mobili usati a prezzi abbastanza alti, dai 600 ai 1500 euro, suppergiù. A distanza di quasi trent’anni l’azienda svedese ha lanciato una nuova versione: si chiamerà Byakorre e i semplici ripiani – appoggiati a una spoglia struttura metallica identica a quella che aveva reso iconica la Enetri – saranno multicolore.

Questa parentesi per dire: anche questo mese le giornaliste e i giornalisti della redazione del Giornale di Brescia hanno voluto condividere con lettori e lettrici i libri che stanno leggendo. Per riempire le librerie, che non sono mai abbastanza. Ecco la nostra selezione di febbraio.

«La simmetria dei desideri»

Di Eshkol Nevo

La copertina di La simmetria dei desideri
La copertina di La simmetria dei desideri

(traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Feltrinelli, pp. 384, 20 euro)

Torna in libreria, per Feltrinelli, il fortunato romanzo di formazione dello scrittore israeliano Eshkol Nevo. A quindici anni dalla prima pubblicazione in Italia (per Neri Pozza), il libro mantiene una sua freschezza quasi ingenua, ma la (ri)lettura, per chi lo ha amato all’epoca, lascia un retrogusto di amarezza. Non solo per il tempo trascorso (siamo tutti più vecchi, compresi i quattro protagonisti del romanzo) ma per quello che nel frattempo è accaduto, in Israele e nel mondo.

È il 1998 e quattro amici per la pelle – l’irrisolto Ofir pubblicitario in carriera, il compatto Churchill ambizioso aspirante avvocato, l’estroverso Amichai intrappolato nel ruolo di giovane padre di famiglia, e lo schivo Yuval, la voce narrante – si trovano insieme per assistere alla finale dei Mondiali di calcio. Per gioco, ognuno affida tre desideri sul proprio futuro ad un bigliettino che sarà aperto solo dopo quattro anni, ai successivi Mondiali, quando verificheranno se le loro aspirazioni si saranno avverate, e soprattutto se la loro amicizia sarà ancora solida come adesso. A vent’anni, con tutta la vita davanti, il gioco prende il sapore di una scommessa. E tale si rivelerà, in un intreccio di eventi e sorprese.

«La simmetria dei desideri» è un inno all’amicizia, più forte del destino. È un’ode alla scrittura, con l’escamotage del «manoscritto ritrovato» e le voci sovrapposte dell’autore/narratore e dell’amico che si occupa della revisione del testo, apportando note e commenti che svelano come la verità dei fatti non esista. È il tentativo di dare un senso all’insondabile mistero dell’esistenza, con le diversioni, le scelte di testa o di pancia, gli errori che ognuno commette, ricomposti in un disegno che solo a distanza (di tempo, di spazio) trova una forma.

Rileggere il libro a quindici anni dalla prima pubblicazione è come aprire i bigliettini dei desideri per verificare se sono stati esauditi. Eshkol Nevo, nel frattempo, ha scritto altri romanzi, più o meno riusciti. L’ultimo libro pubblicato in ordine di tempo, la raccolta di racconti «Legami» (sempre per Feltrinelli), ci pare quello che più recupera il sapore intenso del primo romanzo, in chiave matura.

Ma rileggerlo dopo il 7 ottobre 2023 e quello che ne è conseguito per Israele e la Palestina, è anche tentare di verificare il punto di vista di un autore ebreo israeliano su una delle tragedie del mondo contemporaneo. Se, insomma, attraverso la scrittura si possa essere – per citare un passaggio del romanzo – «profeti di ciò che è stato». Nelle pagine, la questione palestinese emerge solo a tratti, come relegata sullo sfondo. Ma quando emerge, lo fa violentemente. Come nella descrizione dell’assalto all’abitazione di una famiglia palestinese dei Territori, a cui partecipa il protagonista durante il servizio militare. Violenza gratuita e per futili motivi, di cui coglie – a distanza – la disumanità. Se no, un silenzio assordante. Forse figlio dell’assuefazione. O di un senso d’impotenza che solo l’amicizia rende sopportabile.

Giovanna Capretti, vicecaposervizio Cultura

«On Leadership. L’arte di governare»

Di Tony Blair

La copertina di On Leadership
La copertina di On Leadership

(Silvio Berlusconi editore, pp.370, 21 euro)

«Chi sa fa e chi non sa insegna». Una massima acida, quella di Lao Tsu, che calza soltanto a metà per Tony Blair, considerato che l’autore ha la pretesa di insegnare, ma nel mezzo del cammin della sua vita qualcosa ha pure fatto: primo ministro della Gran Bretagna, unico leader laburista a vincere tre elezioni di fila, governando dieci anni, ottenendo eccellenti risultati (lo storico accordo con l’Irlanda, oltre ad anni di prosperità economica) e pagando dazio a qualche scelta sbagliata (aver seguito ciecamente Bush nella guerra in Iraq).

Blair, dopo aver lasciato gli incarichi amministrativi, ha fondato l’istituto senza scopo di lucro che porta il suo nome e che si occupa di politica e relazioni internazionali. Il suo ultimo libro, «On Leadership. L’arte di governare», gli assomiglia, correndo sul filo del perenne equilibrio tra idealità e pragmatismo, intuizioni e banalità: «In medio sta virtus» è il motto che ci viene in mente, per riassumerne il pensiero.

Più in profondità, il libro si legge senza intoppi e in filigrana si trovano più livelli. Ce n’è uno che riguarda la capacità di direzione, di comando, di guida. L’autore si rivolge al lettore come se fosse il leader di una nazione, ma i suoi consigli si possono applicare per ogni dirigente, amministratore pubblico o privato, imprenditore. Un secondo concerne la politica, l’arte del governare ma anche del formare un’opinione, ottenere consenso, passare dalle parole (e dalle promesse) ai fatti, svestendo i panni del «gran persuasore» per indossare quelli di amministratore delegato. Un terzo – forse il più interessante, senz’altro quello più originale – attiene invece lo scenario internazionale e le sfide che il mondo attuale sta affrontando, con lo scontro tra super potenze (Usa e Cina, con terzo incomodo… l’India).

«Una conclusione a cui sono giunto – scrive Blair – è che gli attributi della leadership sono stessi, ovunque la si eserciti: alla guida di un paese o di una squadra di calcio, gestendo un’azienda o una qualsiasi organizzazione. Un leader fa un passo avanti quando gli altri ne fanno uno indietro». In sette righe, il libro è questo.

Giorgio Bardaglio, vicedirettore

«Locked In»

Di Jussi Adler-Olsen

La copertina di Locked In
La copertina di Locked In

(Quercus Books, pp.512, 31 euro)

Il fenomeno danese Jussi Adler-Olsen porta a compimento, dopo dieci appassionanti episodi, la saga del detective Carl Mørck e della sua «Sezione Q», originata nel 2007 con la pubblicazione dell’esplosivo «Kvinnen i buret», approdato in Italia per Marsilio con il titolo «La donna in gabbia».

È infatti di poche settimane fa l’uscita in lingua inglese, per Quercus Books, di «Locked In», con cui si prodiga a chiudere il cerchio e dare conclusione alle labirintiche traversie cui ha destinato i suoi personaggi. Una fine senza appello a concedere sequel, che cala il sipario sia sulle vicende giudiziarie che quelle umane che hanno affannato l’ispettore Mørck, come i suoi collaboratori Assad, Rose e Gordon.

Giallista atipico rispetto ai grandi nordici, Jussi Adler-Olsen è fra gli autori danesi più venduti nel mondo, spesso al vertice delle classifiche internazionali. I suoi libri, tradotti in più di 37 paesi, hanno conseguito importanti riconoscimenti approdando, seppur con qualche ritardo, anche nel nostro paese.

Crudo, in grado di ingegnare descrizioni di indicibili violenze attraverso pagine al contempo barocche e scarne, predilige il rush adrenalinico del thriller alla clinica precisione del giallo, senza però esimere totalmente dal genere.

Lungo sarebbe, se non addirittura fuorviante, ripercorrere le tappe di un percorso lungo 17 anni e dieci libri ma è pure riduttivo giudicare un opus come quello dedicato alla «Sezione Q» da una sola copertina. Quest’ultima in particolare.

Adler-Olsen consegna ai lettori un romanzo che è più un lunghissimo epilogo. Carl Mørck è incarcerato (locked in, appunto) sulla scorta di accuse che lo hanno accompagnato per tutta la saga. Toccherà ai componenti della «Sezione Q» scoprire quali meccanismi si celano dietro a una serie di delitti passati e recenti, compresi i numerosi tentativi di uccidere lo stesso detective.

Nel processo, però, Jussi Adler-Olsen sembra cadere vittima di una sindrome nostalgica anticipata: il romanzo recupera - a tratti forzatamente - comparse dei precedenti episodi e offre conclusioni beate a (quasi) tutta la coorte di personaggi scaturita dalla sua penna. Compreso Carl Mørck, soprattutto Carl Mørck. Senza voler spoilerare nulla viene quasi da chiedersi: esiste per un antieroe una fine più crudele di questa?

Ilaria Rossi, redattore

«L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso»

Di Luigi Guarnieri

La copertina di L'atlante criminale
La copertina di L'atlante criminale

(Mondadori, pp.316)

Ci sono pochi personaggi della storia italiana ad aver danzato sul sottilissimo filo che separa genio e follia come ha fatto Cesare Lombroso. Il fascino del medico, antropologo, filosofo, docente, giurista e padre della criminologia moderna è innegabile ed è per questo che alla prima occasione utile ho scelto di visitare il Museo di antropologia criminale fondato dallo stesso Lombroso, attivo sin dal 1876 all’Università di Torino e aperto al pubblico dal 2009. La visita al museo, esperienza che sembra uscita direttamente da uno dei romanzi di Arthur Conan Doyle, non ha fatto altro che fomentare la mia curiosità nei confronti della figura di Lombroso, sospesa tra realtà e leggenda. Ma purtroppo, come spesso accade con questa tipologia di personaggi in Italia e non all’estero, la produzione letteraria è striminzita e complessa da reperire.

La mia scelta è ricaduta su «L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso», edito da Mondadori nel 1999 e scritto da Luigi Guarneri, unico vero libro sul tema escludendo i testi universitari e di settore. La biografia, romanzata con tratti saggistici, che ha richiesto all’autore anni di studi e complesse ricerche, purtroppo è finita fuori produzione e si può reperire solamente usata o in biblioteca.

Lo sforzo però è totalmente ripagato da una storia ai confini della realtà, tra paradosso e bizzarria, dove il famigerato alienista mostra tutta la sua sorprendente genialità assieme alle sue innegabili contraddizioni. Se ogni tanto percepite il pizzicorino del quinto senso e mezzo di Dylan Dog, se vi capita di cedere al soprannaturale senza mai dimenticare il metodo deduttivo di Sherlock Holmes allora questo è libro che fa per voi.

Jacopo Bianchi, redattore

«Memoriette del buontempo»

Di Tito A. Spagnol

La copertina di Memoriette del buontempo
La copertina di Memoriette del buontempo

(Italo Svevo Editore, 2021, pp.212, 16 euro)

Che vite, certe vite. Come quella di Tito Antonio Spagnol. Veneto di Vittorio Veneto, uomo di fine Ottocento approdato giovanissimo al giornalismo capitolino. Primi anni Venti, venti socialisti e bufere fascistissime all’orizzonte. A chi era stato centralinista del Comando supremo di Cadorna durante la Prima guerra mondiale, disilluso e consapevole delle follie degli adepti di Marte, basta poco per fuggire dalla Roma degli eterni intrighi di palazzo, puntare Parigi e approdare a Hollywood.

Meta di un reportage di poche settimane sull’America di celluloide, si tramuta in una terra del destino, popolata di emigranti italiani e di autoctoni ossessionati dal ciak. Nella Los Angeles sospesa tra grande crisi del 1929 e la leggerezza sconfinata, di cui Spagnol è osservatore schietto e acutissimo, sperimenta le proprie abilità di scrittore per la settima arte. E vi trova l’opportunità di divenire assistente alla regia di un titano come Frank Capra. O di incrociare in un negozio di scarpe Greta Garbo. O ancora di bere con Charlie Chaplin, che in realtà è un camionista abruzzese che gli fa da controfigura.

E dalla dorata California al polveroso Messico il passo è breve per lo scrittore, avventuriero, intellettuale e bohemien, in cerca di una residenza temporanea per riaccedere con un visto nuovo agli States, ben prima dei muri di Trump. Eccolo allora attraversare a cavallo il deserto arido del Sonora e raggiungere la costa da cui guadagnare su una barchetta l’oceano del Golfo del Messico. Non prima di aver incrociato vecchi rancheri di Terracina ed ex rivoluzionari di Pancho Villa, senoras yaqui dall’inesplicabile fascino e sconfinate nostalgie al sapore di tardivo far west.

In atmosfere che evocano ora il John Fante di Chiedi alla Polvere, ora quhttps://mirfet.com/category/senzanome-a-proposito-di/elle di raffinate liriche dannunziane, ora persino le più psichedeliche derive di Hunter Thompson, Spagnol si tramuta in un picaro che racconta cose umane ed eterne prendendo a pretesto casi della sua stessa vita, che siano l'incontro con super manager degli studios o la conoscenza di un collezionista di salme, fino a improvvisati rapinatori.

Il che incanta, almeno quanto stupisce il fatto che questo suo Memoriette del buontempo - titolo del tutto sminuente, come ha ben osservato qualcuno - riportato in libreria dall’inconfondibile stile di Italo Svevo Editore (Biblioteca di Letteratura inutile, quella che impone pagine intonse da sudarsi con tagliacarte e gusto retrò) non sia ancora considerato un piccolo classico.

Gianluca Gallinari, caporedattore

«Una piccola città in Germania»

Di John le Carré

La copertina di Una piccola città in Germania
La copertina di Una piccola città in Germania

(Mondadori, pp.368, 14 euro)

John le Carré scrive Una piccola città in Germania nel 1968, in un periodo in cui in Europa la cortina di ferro sembra una condizione perenne. La Guerra Fredda ha cristallizzato un equilibrio fragile, in cui ogni movimento diplomatico assume un peso strategico e simbolico. Il romanzo, quindi, non è solo un’opera di spionaggio, ma un documento che racconta il clima di un continente diviso tra le ombre del passato e le incertezze del futuro.

In una prefazione alla ristampa Penguin del 1991, Le Carré racconta di non aver amato particolarmente questo libro, soprattutto perché in quel periodo della sua vita stava affrontando la dolorosa separazione dalla prima moglie. Ci pensa l’autore ad illustrare il contesto in cui nasce il libro: la Germania Ovest degli anni Sessanta, è il crocevia di tensioni internazionali, di interessi contrapposti e di illusioni politiche. Bonn, la piccola capitale di una nazione economicamente rinata ma politicamente instabile, diventa la lente attraverso cui osservare i meccanismi del potere. L’ansia dell’Occidente per un possibile riavvicinamento tedesco all’Unione Sovietica, il timore del riaffiorare di sentimenti nazionalisti e l’onda lunga della contestazione giovanile creano un quadro complesso, specchio delle paure di allora e, sorprendentemente, di alcune di quelle odierne.

Le Carré si muove dentro queste tensioni con la precisione di un analista politico, tratteggiando un mondo in cui i confini tra bene e male si sfaldano nel pragmatismo diplomatico. La sua riflessione si estende ben oltre la narrazione, toccando il concetto stesso di fedeltà: non solo alle istituzioni, ma a una visione della storia, della nazione e dell’identità europea. Il protagonista del romanzo si trova immerso in una burocrazia che maschera ipocrisie e calcoli strategici, incarnando il senso di disillusione di un’epoca in cui le certezze ideologiche iniziano a sgretolarsi.

Uno degli aspetti più attuali del libro è il modo in cui il passato nazista della Germania si insinua nel presente, una presenza silenziosa ma persistente che contamina le dinamiche politiche e sociali. Le Carré suggerisce che il fantasma del Terzo Reich non è mai del tutto svanito, ma si è trasformato in una forza latente, pronta a riemergere nelle pieghe della democrazia occidentale. Ai tempi della sua comparsa il libro venne letto  come una feroce critica anti-tedesca e questo perché sullo sfondo del romanzo emerge l’idea per cui il processo di de-nazificazione della Germania sia stato ad un certo momento abbandonato dalle potenze occidentali preoccupate maggiormente dall’anticomunismo.

Riletto oggi, Una piccola città in Germania conserva una sua rilevanza. La diffidenza verso le istituzioni, il ritorno del nazionalismo e l’eterna ricerca di un equilibrio europeo fanno sì che il libro non sia un semplice prodotto del suo tempo, ma una chiave per interpretare la nostra contemporaneità. Le Carré ci ricorda che la politica non è mai solo una questione di ideali, ma un gioco di interessi in cui la verità è spesso il primo sacrificio.

Appuntamento al prossimo mese con la recensione del mitico romanzo La Talpa.

Carlo Muzzi, caporedattore

«Senzanome»

Di Mirfet Piccolo

(Giulio Perrone Editore, pp.236, 18 euro)

È tutt’altro che semplice raccontare una storia in modo apparentemente semplice. Soprattutto se si tratta di una storia complicata e dolorosa, sporca e grondante sangue. Mirfet Piccolo ci riesce in Senzanome.

«Senzanome» è il peluche della protagonista di questo romanzo in cui nessuno ha un nome ma è innanzitutto la protagonista stessa. Prima bambina, poi ragazza e infine donna, è presentata per lo più attraverso negazioni, privazioni: la bambina che non gioca, la bambina che ha sete, la bambina con la testa rasata, i non-genitori, la non-stanza, la non-casa. Finché cambia qualcosa: la senzanome diventa “la bambina che vuole leggere”.

E allora s’intravede un riscatto, il potere delle parole concede un nuovo inizio. Però ci sono parole impronunciabili anche da adulti, se non nel tentativo segreto di mettere insieme la propria storia con 253 post it: per non spaventare gli altri, per difendere se stessi. Perché un’infanzia violata è tale per sempre. Mirfet Piccolo lo grida sommessamente in questo libro, e lo dimostra riportando sul suo sito mirfet.com l’ampio materiale su cui ha fondato la scrittura di Senzanome.

Francesca Sandrini, vice caposervizio

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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