Anni ’80, giornalismo e Brianza noir nel nuovo romanzo di Brambilla

«E poi tutti abbiamo qualcosa di inconfessabile. Tutti. Nessuno escluso», dice don Tranquillo Riva, parroco di Besana Brianza, che nei modi tiene fede al suo nome e sul mondo ha uno sguardo disincantato. Non si illude sulla sua gente, che nella chiesa del paese confessa solo «certi peccati», mentre gli altri «va a confessarli ai santuari», anche fino a Caravaggio, perché «quando c’è di mezzo il sesso, mettono più chilometri possibili tra le loro debolezze e il loro pentimento». Così il prete di paese offre all’impertinente cronista la chiave di lettura dell’universo piccolo piccolo che è la provincia.
Il libro
«Non è successo niente di grave» (Baldini-Castoldi, 175 pagine, 19 euro) di Michele Brambilla: una base di giallo, una punta di poliziesco, un retrogusto di noir. Difficile da classificare, è un intrigante romanzo ambientato nella Brianza d’inizio anni Ottanta, quando il Novecento degli operai e delle fabbriche, dei «cummenda» e delle ville con annessa Ferrari, erano raccontati dai giornali.
La storia è semplice. Una sera di marzo del 1980 Caterina Besozzi viene trovata morta dal fratello Attilio, venuto per cena come faceva ogni venerdì, seduta sulla poltrona di casa. La testa sfondata a martellate e lei immobile, con la «Settimana enigmistica» in mano. La donna, poco più che trentenne, da qualche tempo è arrivata a Besana Brianza come medico di famiglia. Veniva da Laveno, la «sponda magra» del lago Maggiore. Bella e sola, irreprensibile e inviolabile ad ogni tentativo d’assalto. Chi l’ha uccisa? Il maresciallo Vicinanza e il magistrato Forestieri provano a sondare ogni possibile pista, ma senza cavare un ragno dal buco.
Nel frattempo, tutto attorno è un gran fermento: molti sono in allarme, non perché siano coinvolti nel delitto ma perché temono che indagando qua e là i carabinieri inciampino sulle loro tresche private. C’è chi ha le idee chiare, come il notaio Scanziani: «Voi farti l’amante? E fattela. Ma che non si sappia in giro». E chi gioca d’anticipo, come l’Angelino Casiraghi, uno che di ogni sua proprietà, piccola o grande, dichiara subito quanto l’ha pagata, e che va dai carabinieri a raccontare la sua versione, prima che vengano a sapere «le balle che qualcuno ha messo in giro». A seguire l’andamento della vicenda l’io narrante, lo stesso autore, assieme ad un inseparabile cronista de «L’Unità», perché la storia sborda nell’autobiografia.
L’autore
Michele Brambilla è giornalista di lungo corso: anni e anni al Corriere della Sera, inviato a La Stampa, passaggi a Il Giornale e a Libero, quindi direzioni importanti da La Provincia di Como alla Gazzetta di Parma, al Quotidiano Nazionale e ora a Il Secolo XIX. Ma il suo cuore è rimasto là, a quando faceva il corrispondente dalla Brianza per il Corriere d’Informazione, uno di quei quotidiani del pomeriggio che solo chi ha una certa età può ricordare.
Di quel giornalismo Brambilla tratteggia un affresco affascinante: giri di nera, telefoni a gettone, pezzi dettati ai dimafoni, tanta strada a piedi e tante ore appostati o in giro a cercare qualcosa da scrivere. Il romanzo è tessuto con la trama d’una vicenda-specchio dei tempi e l’ordito d’una stagione italiana che già stava tramontando. In una zona, la Brianza, non tanto diversa da altre lombarde, Bresciano compreso, in precario equilibrio fra tanti soldi e pochi scrupoli. Eppure, nella penna di Michele Brambilla la provincia che si annoia, ma persino lo smog sul cielo di Milano e l’aria spessa dei bar al cambio-turno degli operai, assumono un fascino particolare.
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