Brescia 1991-1994: Tangentopoli e la Loggia nel nuovo libro di Ferrari

È un racconto, spiega l’autore, non un saggio. Ma è la storia di una stagione nevralgica per la nostra città, la nostra politica, e di vicende che riecheggiano ancora oggi, dopo trent’anni. Narra la fine della Prima repubblica e della nascita di nuovi schieramenti maggioritari, di un centrosinistra che anticipa i tempi e fa di Brescia una sorta di laboratorio politico nazionale, del deflagrare nella Dc onnicomprensiva in inconciliabili lacerazioni fra le correnti, dello scontro sordo fra comunisti e socialisti, mentre la politica viene sconquassata dal terremoto di Tangentopoli.
«Brescia 1991-1994. Quando tutto finì e tutto cominciò» (Grafo, 230 pp., 15 euro), scritto da Pierangelo Ferrari, sarà presentato giovedì 30 gennaio, alle 18, nell’auditorium della Fondazione Ds, in via Metastasio 26, con la partecipazione di Emilio Del Bono e Laura Castelletti, già a quei tempi giovanissimi protagonisti sulla scena cittadina. Ferrari, di quella storia, fu tra i registi. Del Pci prima e poi nel Pds e nel Pd, è stato consigliere in Loggia e in Broletto, segretario provinciale e regionale, capogruppo in Regione e parlamentare per due legislature. Ammette quindi di non poter essere equanime nella sua visione.
Prodromi

La prende larga, Pierangelo Ferrari – giustamente, altrimenti molte cose resterebbero inspiegate – dagli anni Settanta, da Moro e le Brigate Rosse, l’ondata neoliberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, ma anche dal clima pop del riflusso. La Milano da bere e lo sbracato «Drive In» sulle televisioni berlusconiane che rimodellavano i costumi, la feroce satira del «Cuore» di Michele Serra, gli sberleffi di Gianfranco Funari che dagli studi di «Mezzogiorno italiano» pretendeva di farsi voce della «ggente», «Il portaborse» con Nanni Moretti raccontava il retrobottega del potere.
L’antipolitica aveva il ritmo di una canzone di Rino Gaetano: «...nuntereggae più». Michele Santoro era il tribuno di «Samarcanda». La Lega lombarda si rivelava da Gad Lerner su «Profondo Nord». Queste alcune pennellate di un affresco vivace che il libro pone come ordito ad intrecciarsi con le trame bresciane. Ma quanti avevano colto che l’opinione pubblica non reggeva più una politica pervasiva e vorace? Eppure i segnali erano evidenti... a leggerli oggi.
Il 1991
Il 1991 fu l’anno del grande scontro. Il referendum promosso da Mario Segni diede il primo scossone al sistema. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il «Picconatore», scrisse alle Camere parlando di «momento magico in cui sperare in una reale capacità di cambiamento delle regole della politica».
Non fu così e i partiti franarono sotto le macerie di Tangentopoli. «Povera patria...» cantava Franco Battiato. Per il Pci travolto dal crollo del Muro di Berlino veniva l’ora della «svolta della Bolognina», nasceva la Quercia, il Pds. Anche a Brescia finiva la storia del Pci: «Un addio tra gli sbadigli», il titolo emblematico del Giornale di Brescia sul congresso tenuto a Roncadelle. Cambiava il nome, non cambiavano i personaggi e le abitudini.
A Brescia
Nel sistema di potere democristiano lo scontro iniziò invece a metà degli anni Ottanta, con l’emergere di Gianni Prandini, uomo di spicco del Caf, l’alleanza tra Craxi, Andreotti e Forlani che aveva stoppato le suggestioni del Compromesso storico. Prandini, forte dei consensi raccolti in provincia, iniziò l’assalto alla roccaforte cittadina, presidiata dalla componente «basista» di Franco Salvi, Mino Martinazzoli e Pietro Padula. Un presidio che resse fino al quinquennio da sindaco proprio di Padula.
Alle elezioni del giugno 1990 in casa Dc scoppiò il finimondo. I prandiniani fecero di tutto per impedire la rielezione di Padula. Solo in extremis si trovò un accordo sulla figura stimatissima di Gianni Boninsegna, «gnaro» di Campo Fiera. Ma continuarono gli scontri feroci e Boninsegna dovette presto gettare la spugna.
Martinazzoli spiegava: «In questi mesi non si è svolto un duello rusticano fra due cognomi, ma si sono affrontate due diverse concezioni della politica». Costretto ad ammettere: «Il partito non regge più il ruolo centrale nella società bresciana». Intanto la Loggia era affidata al commissario Goffredo Sottile. Allacciando i fili delle cronache sui quotidiani di allora, Ferrari squaderna come il mondo bresciano vivesse attonito quella crisi lacerante.
L’arrivo della Lega
Le elezioni del novembre 1991 rivelarono una nuova forza in campo: la Lega di Bossi, primo partito che per 72 voti superava la Dc, attorno al 24%. Il Psi al 10 %, poco sotto stava il Pds. Persino L’Osservatore Romano commentò: «Un vero e proprio pronunciamento contro l’apparato dei partiti».
Ma l’instabilità rinfocolò le lotte e ancora una volta si giunse ad un compromesso dell’ultimo giorno, sul nome del socialista Gianni Panella, che fu eletto e si resse grazie ad un voto pidiessino, quello di Mario Abba. Storia sofferta.
Mani pulite
Le elezioni politiche del 1992 nelle aspettative di molti avrebbero dovuto fare chiarezza: il Psi puntava a sorpassare il Pds, Prandini, in auge da ministro potente, preparava l’assalto finale. Ma il 17 febbraio a Milano fu arrestato Mario Chiesa. Era l’avvio della slavina di Mani pulite, che a Brescia vide l’arresto di Prandini, il suicidio di Sergio Moroni, e guai per molti altri.

Panella finì in un angolo e già a maggio del ’92 iniziarono le manovre con Paolo Corsini, leader dei Pds in Loggia. Gli ostacoli e le diffidenze man mano si sciolsero nell’idea di un «governo del sindaco»: Corsini venne eletto il 27 settembre. Il racconto di quei giorni, intrecciato alle vicende nazionali, dice di una stagione tormentata, sofferta, lacerata, ma anche di progetti che prendevano corpo in un disegno perseguito con tenacia e abilità.
La mossa del cavallo
Sono i mesi della mossa del cavallo. Il Pds accredita una sinistra di governo tenendo la mano all’ala cattolico-democratica del nascente Ppi, fino ad andare a bussare, a settembre del ’94, alla porta di Mino Martinazzoli per proporgli la candidatura. Fu eletto a sindaco a dicembre, vincendo il ballottaggio con il leghista Vito Gnutti. Anticipazioni d’era ulivista, anche se Romano Prodi allora era solo l’economista chiamato dagli industriali a studiare le prospettive del Sistema-Brescia. Altre voci, altri personaggi risuonano nel racconto: Cesare Trebeschi, Gianni Savoldi, Guido Alberini, Ubaldo Mutti, Vasco Frati, Gastone Pagliarini, per citarne alcuni.
Pierangelo Ferrari ammette: non mancavano a Prandini ragioni per sfidare l’egemonia della sinistra Dc in città, linea condivisa dalla corrente forzanovista di Sandro Fontana. La sinistra Dc reagì solo rivendicando una propria diversità, senza trovare però una soluzione politica. Il Psi mostrò una sua tenuta, ma non bastava. Il Pds aveva un progetto...
Partecipazione e passione
I ragionamenti di Ferrari susciterebbero più d’una replica da parte di chi ha vissuto quegli anni, soprattutto fra quelli che oggi non ci sono più. Ma si troverebbero tutti d’accordo nelle considerazioni finali: erano altri tempi, di partecipazione e passione.
«Tornare a quella intensità è impossibile, ma è almeno necessario recuperare una dimensione comunitaria e ideale». Ora, in giorni di aggregazioni social e slogan facili, si è diffusa l’idea che «i partiti non servono e la politica è solo un ingombro». Anche per questo val la pena di rileggere quella storia, che – come scrive Ferrari – «non meritava di andare dispersa».
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