Strage, Giacomazzi: «Ferrari è morto perché faceva il doppio gioco»

È questo il sospetto che da anni accompagna la donna, che all’epoca, diciassettenne, era la fidanzata dell’uomo
I resti della Vespa su cui viaggiava Silvio Ferrari - © www.giornaledibrescia.it
I resti della Vespa su cui viaggiava Silvio Ferrari - © www.giornaledibrescia.it
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Silvio Ferrari non saltò in aria per caso. Il giovane neofascista bresciano ucciso dalla bomba che stava trasportando la notte tra il 18 e il 19 maggio del 1974 pagò con la vita la scelta di giocare su due tavoli. È morto per la scelta di partecipare, da un lato, alle riunioni nelle quali ordinovisti, carabinieri e uomini dei servizi deviati decidevano attentati e, nello stesso tempo, di fornire documenti e immagini scattate nel corso di quegli appuntamenti ad un funzionario dell’ufficio politico della questura.

Testimone

È questo il sospetto che da anni accompagna Ombretta Giacomazzi che all’epoca, diciassettenne, di Silvio Ferrari era la fidanzata e che oggi, 51 anni dopo, è testimone chiave delle indagini sulla fase esecutiva della strage di piazza della Loggia. Giacomazzi è in aula per la quarta volta consecutiva, la seconda per rispondere al controesame del difensore di Roberto Zorzi. L’avvocato Stefano Casali sta cercando di minare la credibilità della testimone all’epoca spettatrice privilegiata di quanto accadde tra Brescia e Verona nella primavera culminata nella strage che uccise otto persone e ne ferì altre centodue.

Ad Ombretta Giacomazzi, tra i numerosi altri, l’avvocato Casali ha letto due verbali, uno del 1975 risalente all’epoca della sua detenzione a Venezia per falsa testimonianza, l’altro al 2021 rilasciato davanti ai pm Silvio Bonfigli e Caty Bressanelli. In entrambi emerge che Giacomazzi disse che avrebbe avuto l’incarico di convincere Silvio Ferrari a compiere l’attentato al Blue Note, la sera stessa in cui saltò in aria, qualora – cosa che non si era verificata – il giovane si fosse tirato indietro.

La teste ha escluso la circostanza. «A Venezia mi estorsero quelle dichiarazioni – ha spiegato ai giudici Ombretta Giacomazzi – Vino e Trovato mi interrogarono senza la presenza dell’avvocato. C’era Delfino però. E mi fece dire di tutto. Per tornare in libertà io lo dissi. Figuriamoci se mandavo Silvio a fare una cosa così. Semmai il mio ruolo era quello di convincerlo a non farla».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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