Frane e alluvioni, l’emergenza «erode» i fondi per prevenirli
A Sant’Eufemia e a Costalunga, in città, se lo ricordano bene quel maggio del 2010 con l’acqua fin sopra le ginocchia, il fango appiccicato alle strade, i mobili delle taverne e delle cantine che galleggiavano, le auto sommerse, secchi e ramazze in mano per giornate intere. Non sono i soli: da Nave a Rovato, passando per Rezzato sono tanti i bresciani che di racconti ne potrebbero sfoderare a decine: tutti episodi emergenziali causati da alluvioni e frane che avevano una radice comune, il dissesto idrogeologico.
Lì, però, quei giorni sono archiviati nel cassetto dei ricordi: i progetti messi in campo (e possibili in parte grazie all’iniezione di fondi targati Regione, in parte grazie a sempre più faticosi investimenti comunali) hanno arginato l’emergenza costante e sono intervenuti alla radice, prevenendo la crisi con la realizzazione di una serie di vasche di laminazione.
Non è però stato semplice e, soprattutto, non è stato rapido: basti pensare che a Rovato hanno dovuto pazientare per ben trent’anni e l’iter per dare vita, ai piedi del Monte Orfano, al bacino di captazione delle acque in arrivo dal torrente Carera è durato quasi un lustro.
Sotto la lente
Come mai? Da un lato per una burocrazia impossibile (tra progettazioni, incarichi, appalti, verifiche i procedimenti durano troppo). Dall’altro perché i fondi dedicati alla crisi climatica (rischio dissesto incluso) sono sempre pochi e spesso, quando c’è da tagliare qualche voce di spesa, sono i primi a subite una ulteriore cura dimagrante. Non solo. Tutto questo fa scattare un effetto domino: quel poco che resta nei portafogli degli enti pubblici viene (per contingenza) via via in parte «eroso» dal preventivo lasciato in eredità dagli episodi emergenziali: la strada da mettere in sicurezza, la manutenzione del torrente e così via. Insomma, a nuove risorse corrispondono vecchi problemi. Non fare solo la conta dei danni ma prevenirli è diventato sempre più difficile, ma farebbe risparmiare da cinque a sette volte il denaro pubblico speso per affrontare le conseguenze dei continui allarmi.

Qualche dato: stando al report regionale (l’Inventario dei fenomeni franosi in Italia) dal 2000 ad oggi nel Bresciano si sono registrate 5.744 frane (con in testa Valcamonica e Valsabbia), coinvolgendo 751 chilometri quadrati di territorio, sono 31.012 le aree in dissesto idrogeologico e la Provincia nel suo piano di emergenza della Protezione civile ha mappato circa 150 «zone rosse». A questo si aggiunge un altro fronte: l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) effettua otto «monitoraggi speciali» in altrettante zone. Si tratta di Pal (Sonico), Idro, Paisco, Val Vedetta (Gianico), Roncaglia (Pian Camuno), Valle di Saviore (Saviore dell’Adamello), Grumello (Paisco Loveno), Zinvill (Sellero), in tutte queste aree vengono eseguiti rilevamenti automatici e manuali che aiutano i tecnici a carpire l’andamento dei movimenti.
Burocrazia
Ad essere emblematico è però un altro dato: la mappatura del Broletto (quella del piano emergenza) risale al 2007 e, a distanza di diciassette anni, è ancora attuale. Segno che dal punto di vista della cura i passi in avanti compiuti effettivamente in questi vent’anni sono irrisori rispetto al ritmo in cui avanzano le conseguenze della crisi climatica e, soprattutto, rispetto alle risorse economiche investite.
Basti pensare che, secondo la Corte dei conti e l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), per salvare l’Italia da frane e alluvioni servirebbero 26,579 miliardi di euro ma i governi susseguitisi a Palazzo Chigi dal 1999 ne hanno investiti soltanto 6,59. Nello stesso periodo però, stando all’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (Irpi) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), in Italia si sono registrate frane, smottamenti e inondazioni in tutte le province di ognuna delle venti regioni e, in particolare, in 3.921 località: per quanto riguarda la Lombardia, Brescia è la provincia più colpita dopo Sondrio.
Secondo l’European environment agency (Eea), negli ultimi 40 anni frane e alluvioni sono costate all’Italia 51 miliardi di euro, a fronte dei 36 miliardi della Germania e dei 35 della Francia. Una differenza dovuta soprattutto all’inerzia della burocrazia e ai progetti mai portati a termine per difendere il 16,6% del territorio classificato a elevato rischio idrogeologico, un bacino in cui vivono 1,5 milioni di cittadini. A denunciarlo è sempre la Corte dei conti che, nella relazione del 2023, annovera 7.275 Comuni (tra cui quelli bresciani) «a maggiore pericolosità» dal punto di vista del «rischio idrogeologico».
Per il progetto ReNDiS (Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo) però, dal 1999 al 2019, in queste zone sono stati finanziati 6.063 interventi per un importo complessivo pari a 6,59 miliardi di euro a fronte di 26,57 miliardi necessari. Insomma, quasi 1.800 progetti non sono stati finanziati e poco meno di 20 miliardi non sono mai stati spesi. Perché? Lo spiega l’Agenzia per la coesione territoriale: la durata media di tutti gli interventi finanziati dallo Stato è di 4 anni e due mesi. La maggior parte di questo tempo è impiegato per la progettazione e i cosiddetti «tempi di attraversamento» (alias: affidamento dei lavori ed esecuzione delle opere). Nel mezzo, però, restano le emergenze da gestire e i danni da affrontare.
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