Dalla violenza sui social a una Chiesa più accogliente: parla il vescovo Tremolada
Dalla violenza sempre più dilagante sui social, alla prospettiva missionaria della Chiesa, al calo dei sacerdoti fino all’impegno dei cattolici in politica. Il vescovo Pierantonio Tremolada a 360 gradi in questa intervista al Giornale di Brescia.
Monsignor Pierantonio, nelle scorse settimane, voi vescovi lombardi siete stati in Vaticano per la visita ad limina, com’è andata?
Una bella esperienza per noi vescovi, come momento di fraternità abbiamo deciso di stare tutti nello stesso luogo, anche ad abitare. È stata quindi l’occasione anche per un confronto tra di noi, devo dire che siamo stati molto soddisfatti del modo in cui i dicasteri ci hanno incontrato. Abbiamo dialogato bene e abbiamo avuto la sensazione di venire ascoltati e non di essere giudicati oppure di ricevere delle indicazioni un po’ tassative.
Avete raccontato le vostre diocesi?
Ci siamo preparati diocesi per diocesi, ognuna ha fatto pervenire la sua relazione. E poi i delegati responsabili di ogni settore della Conferenza episcopale lombarda hanno di volta in volta presentato ai dicasteri la situazione delle diocesi. C’è stato un bel confronto, veramente è stato molto utile.
Avete incontrato papa Francesco, cosa vi ha detto?
Abbiamo parlato molto liberamente con lui per circa due ore, Bergoglio ha puntato moltissimo sulla prospettiva missionaria della Chiesa, che non replica se stessa ma dialoga con il mondo e cerca davvero di presentare il Vangelo come proposta di vita. Una Chiesa in uscita, per usare l’immagine tanto cara a Papa Francesco.
Su quale tema ha insistito maggiormente?
Ha insistito molto sull’accoglienza, ha sottolineato con forza che dev’essere di “tutti, tutti, tutti” senza nessuna eccezione. Questo deve essere l’atteggiamento di fondo, certo poi l’accoglienza domanda anche la valutazione delle singole situazioni. Il messaggio fondamentale deve però essere quello dell’apertura e dell’accoglienza.
Ci sono parole che le sono rimaste particolarmente impresse?
Vicinanza, compassione e tenerezza: le ha ripetute più volte. Ci ha invitati ad avere sempre grande sensibilità nei confronti delle varie situazioni, sensibilità che diventa compassione, poi anche tenerezza. Ha insistito sulla speranza, ci ha detto che abbiamo bisogno tutti di speranza e la Chiesa in questo deve essere in prima fila.
Come vede la Chiesa tra 20/30 anni? Come si può reagire a quello che sta accadendo? La Chiesa deve rassegnarsi a essere minoranza?
Non utilizzerei troppo frequentemente la parola minoranza. Perché il punto non è essere tanti o essere pochi, ma essere significativi, avere qualcosa da offrire, qualcosa da proporre e il dimostrare che tutto questo ha un suo valore. Il tema resta la qualità della nostra proposta, non tanto il numero delle persone che riusciamo a riunire.
È però indubbio che il popolo della messa vada costantemente calando.
È vero, un po’ tutti siamo preoccupati da questa riduzione, ma questo dobbiamo ormai metterlo in conto. Ma non nella forma della rassegnazione, io penso che si tratti di un momento storico nel quale dobbiamo tutti avere una coscienza maggiore del loro valore della nostra proposta. Nulla è più scontato.
Cosa pensa delle messe via social?
Io non sono molto entusiasta di questa modalità, perché si perde qualcosa di essenziale, ovvero il senso di comunità. L’eucaristia è inseparabile da un’esperienza di comunità, di stare insieme. In questo senso il futuro delle celebrazioni domenicali dipenderà molto anche dall’esperienza di comunità che si saprà costruire. Riscoprire il piacere di ritrovarsi insieme, non è semplicemente una questione cultuale, il rito rimanda a delle relazioni. Torno a dire, non insisterei tanto sulla minorità quanto sulla qualità di ciò che abbiamo da offrire e sul modo in cui lo viviamo.
C’è indubbiamente anche il tema della qualità delle celebrazioni.
Lì ci giochiamo tantissimo, perché laddove si celebra bene uno viene anche volentieri capisce che lì c’è qualche cosa di sano di bello di fresco. Durante la messa, ripeto, ci si deve sentire comunità. Noi arriviamo da una formazione un po’ troppo individualista: devo andare a messa, ci vado, sono a posto. Dobbiamo uscire da questa logica.
Unità pastorali, non mancano i problemi. È un processo irreversibile?
Direi di sì, io continuo a insistere su questo. Dobbiamo capire sempre meglio ma non lo possiamo fare in teoria soltanto in che rapporto sta l’unità pastorale con le singole parrocchie. L’Unità pastorale non è un una specie di sovrastruttura che annulla le parrocchie, è una comunione di parrocchie, un’unità pastorale non è un ente terzo. C’è indubbiamente la questione dei sacerdoti, può anche essercene uno per parrocchia senza che sia il parroco. Dobbiamo superare la “vecchia” visione, che il parroco era di fatto la Parrocchia. Non può più essere così.
C’è poi la questione dell’impegno dei laici.
Le Parrocchie vanno affidate a una comunità di persone, questo non vuol certo dire che i preti spariranno o che immaginiamo una Chiesa senza sacerdoti. Dobbiamo però pensare alla loro presenza in modo differente, fondamentale la corresponsabilità dei laici. Allora indubbiamente ha giocato il numero di preti, quello giocoforza è stato. Ma siamo di fronte a un cambio di prospettiva.
Ma se da una parte c’è il rischio clericalismo, per i laici non c’è il rischio che si facciano prendere la mano dall’esercizio del potere?
È sicuramente così. Ma chiariamo un punto, il laico non deve sentirsi a capo della Parrocchia, anzi: si mette a disposizione della Parrocchia.
La figura dei direttori di oratorio sta funzionando?
Sì, siamo molto soddisfatti. Ma anche questo caso, oltre al servizio, è fondamentale una spiritualità laicale, cioè un modo di vivere le cose che è quello del Vangelo, non può essere quello del mondo, di una certa logica del mondo.
La pastorale giovanile è un tema da sempre a lei molto caro, a che punto siamo?
Ai nostri sacerdoti dico sempre una cosa: non possiamo affidare la pastorale giovanile solo ai curati. E non possiamo farlo anche per un motivo molto semplice: il numero dei preti giovani è in costante calo. Torna il tema comunità, a cui va detto: guardate che i giovani, i ragazzi sono affidati a voi. Se avete la fortuna di poter contare su un curato bene, altrimenti il presbiterio insieme alla comunità deve farsi carico anche dell’accompagnamento dei ragazzi. I giovani hanno bisogno di relazioni interessanti, significative, che possono trovare anche in un contesto più ampio, non più la Parrocchia ma l’Unità pastorale.
Il mondo giovanile è percorso da violenza, che prende poi corpo in risse (basti vedere quello che accade troppo spesso in centro città), ma anche in fatti drammatici come l’accoltellamento tra due ragazzine dei giorni scorsi. Cosa pensa di tutto questo? Cosa pensa dei social?
Il mondo mediatico si sta dimostrando facilmente preda di un’aggressività incontrollata. Dobbiamo riflettere seriamente su ciò che sta accadendo. Molte persone vengono oggi ferite dai media e dai social in modo estremamente grave. La violenza vi si manifesta nelle sue forme più deplorevoli: la volgarità, l’offesa, l’insulto, il sarcasmo, il disprezzo, fino all’odio e alla minaccia. Violenza che poi si ripercuote anche nella vita di ogni giorno.
Un simile quadro, che certo suscita preoccupazione e anche tristezza, non spegne tuttavia la nostra fiducia. Anche noi come Chiesa dobbiamo dare un contributo prezioso all’edificazione di una società dove sia vivo il senso di umanità e dove si coltivi una vera sapienza. Non possiamo prescindere da tutto questo, è fondamentale.
Non possiamo nemmeno denigrare il mondo social, ormai imprescindibile per comunicare. Cosa si può fare?
Sono convinto che la comunicazione, grazie alle sue nuove potenzialità, sappia creare spazi digitali da abitare con frutto, luoghi affidabili dove siano di casa la verità, la bontà e la bellezza, dove si promuove l’alta dignità della persona umana. Questi spazi saranno come dei porti sicuri nel mare agitato della comunicazione attuale.
Dirò di più, io credo in una comunicazione capace di edificare la comunità locale e quella universale. Mi piace interpretare in questa prospettiva il significato del termine web, cioè la rete. Non una rete che imprigiona ma tiene tutti uniti in un rapporto di solidarietà. È così che da sempre Dio vede l’umanità, come un’unica grande famiglia. Questa è la profezia che la Chiesa cattolica, cioè universale, porta con sé.
Nelle scorse settimane ha rinnovato la fiducia (a tempo determinato) ai suoi vicari, quali le ragioni di questa scelta?
È innanzitutto un riconoscimento della validità di quelle persone. Poi è una scelta che ho fatto per garantire continuità, ci sono alcune questioni molto importanti aperte: abbiamo parlato delle Unità pastorali, c’è anche la nuova proposta di Iniziazione cristiana, come pure il tema dei migranti. Il prossimo anno c’è anche il Giubileo. Continuità ma anche prospettare un’alternanza. Voglio sottolineare che sono molto contento dei miei vicari, c’è grande collaborazione e la libertà di dirsi liberamente le cose.
L’averli fatti monsignori non rischia di creare malcontento?
Non è da intendere come un premio o un metro di valore rispetto ad altri sacerdoti. È un simbolo per far esternare e far capire il ruolo anche all’esterno, è un legame di responsabilità con il vescovo e con la diocesi
Alternanza sulla quale lei ha puntato fin dal suo arrivo in Diocesi.
Esatto. Così è stato anche per il mio ex segretario don Sergio, lui mi ha seguito anche nell’anno della malattia, è stato molto bravo e quindi sono diventati sei, anche a don Marco ho detto che resterà nel suo ruolo per cinque anni.
Comunione ai divorziati risposati, a che punto è il percorso da lei avviato?
Sono molto contento del percorso che abbiamo avviato, abbiamo incontrato esperienze molto toccanti, anche delicate. I sacerdoti, e chi collabora con loro, agiscono con molta delicatezza, serietà e discrezione. Ci troviamo di fronte a situazioni molto complesse, cariche di emozioni e di sentimento. Noi, per usare una parola un po’ tecnica, facciamo discernimento. Papa Francesco ha raccomandato di accompagnare e ascoltare con grande carità, un percorso che diventi per le persone occasione per trovare un po’ di pace. Non si tratta né di dare giudizi né di passare oltre le regole, ma di incontrare un vissuto.
Quanto dura questo cammino?
Circa due anni, quindi io ricevo una relazione dal sacerdote che ha seguito la coppia e decido come procedere. Stiamo vedendo che gli effetti di tutto questo sono molto positivi, le persone sono riconoscenti per il lavoro che facciamo.
Cattolici in politica, come possono essere incisivi?
L’assunzione di responsabilità da parte dei cristiani e delle persone serie, capaci, oneste in politica è particolarmente urgente in questo tempo. Ci abbiamo riflettuto anche come Conferenza episcopale lombarda, “l’interessamento e l’impegno diretto in politica è una doverosa espressione della cura per il bene comune. L’indifferenza che induce all’astensionismo, il giudizio sommario che scredita uomini e donne impegnati in politica sono atteggiamenti che devono essere estranei alla comunità cristiana”.
Abbiamo anche sottolineato che “sono chiamati a farsi avanti uomini e donne che siano voce coraggiosa e sapiente, profetica e realistica per dire: no alla guerra assurda e disastrosa, noi cerchiamo la pace giusta e possibile; no alla follia delle armi che guadagna nel distruggere, noi chiediamo che ci siano risorse per costruire e curare; no alla diseguaglianza scandalosa che con sperperi irresponsabili rovina i popoli, ignora i poveri e distrugge il pianeta, noi siamo assetati di giustizia e dedicati alla solidarietà”.
Le Parrocchie possono essere coinvolte sul fronte politico?
Come vescovi lombardi abbiamo deciso che le strutture delle Parrocchie e degli altri soggetti ecclesiali non possano essere utilizzate per la campagna elettorale. La comunità cristiana, associazioni e movimenti, abbiamo ribadito, devono sentirsi incoraggiati a promuovere di propria iniziativa opportuni confronti su temi sociali e iniziative di formazione per suggerire criteri di discernimento in ogni ambito della vita, anche in quello politico e amministrativo. Non solo, si deve valutare l’opportunità che i candidati nelle elezioni amministrative e politiche sospendano incarichi pastorali per evitare di essere motivo di divisione nelle comunità cristiane e per favorire la libertà di tutti sia nel proporsi sia nel votare.
La pandemia è stato uno spartiacque anche per la Chiesa.
La pandemia ci ha profondamente segnato, in tutti gli ambiti della vita. Come Chiesa, come uomini e donne di Chiesa, mi pare abbiamo dato il nostro contributo, contributo molto spesso fondamentale. Ci siamo misurati con qualcosa di straordinario, da parte nostra abbiamo cercato di mantenere un vissuto sociale.
Le sfide del futuro?
Le sfide ci sono molto chiare, e le stiamo affrontando. Torno ai giovani, abbiamo steso “Futuro prossimo”, ovvero linee di pastorale giovanile, poi è arrivato il Covid e l’attuazione si è un po’ fermata, dobbiamo sicuramente riprendere il cammino. Sulla pastorale giovanile dobbiamo investire di più e anche essere più creativi, più capaci di intercettare i ragazzi perché questo è l’ambito nel quale è più evidente che non possiamo ripetere schemi precedenti, non possiamo procedere per inerzia. Per una pastorale giovanile efficace serve una grande capacità di ascolto e interazione.
Il nuovo percorso del catechismo è una vera rivoluzione. Come sta andando?
La nostra proposta di Iniziazione cristiana è certamente un po’ coraggiosa, ci sono novità non scontate, ma ci abbiamo pensato molto bene: nulla è improvvisato. Sulla decisione di legare la cresima più al battesimo che alla preadolescenza mi sono confrontato con la Cei, con molti confratelli vescovi. C’è poi l’accompagnamento dei genitori e la revisione della scansione degli incontri, di tutto questo io sono soddisfatto. Indubbiamente sono cambiamenti che vanno metabolizzati.
La pastorale interculturale è ormai punto fermo anche per la Chiesa. Lei cosa ne pensa?
Direi che è fondamentale, la riflessione è sempre aperta per leggere al meglio la realtà e i suoi continui cambiamenti. Quello che noi chiamiamo futuro, soprattutto per i giovani, è già realtà, è l’oggi. Dobbiamo capire bene cosa significa integrazione, inclusione e dialogo tra le culture.
In questo tempo di difficoltà, la Chiesa resta un presidio fondamentale per quelli che papa Francesco chiama gli ultimi.
La carità è imprescindibile nel nostro agire, come Chiesa dobbiamo essere in prima fila nell’aiuto e nel sostegno ai più deboli, nell’accoglienza degli emarginati. Dobbiamo capire quali sono le povertà sul nostro territorio, povertà che spesso rischiano di rimanere nascoste, anche perché i bresciani hanno molto pudore su questo. D’altro canto sanno anche essere molto generosi.
Pur tra mille difficoltà, le Parrocchie restano riferimenti imprescindibili.
È così, perché c’è la possibilità di incontrare le persone, di guardarle in faccia e loro questa cosa la sentono. Tutto questo è molto importante.
Lei è vescovo di Brescia da oltre sei anni, un suo bilancio?
Il bilancio è ampiamente positivo, sono molto contento del lavoro che abbiamo fatto, anche grazie alla collaborazione che ho trovato fin dal primo giorno. La Diocesi è condotta da una squadra, spero che questo sia evidente, a me pare di sì, non vedo il rischio di una conduzione troppo personalistica del vescovo. Siamo insomma in quella sinodalità a cui ci richiama costantemente papa Francesco. La missionarietà deve essere la nostra prospettiva, non la semplice conservazione di quello che siamo e abbiamo sempre fatto.
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