Camorrista all’ergastolo scrive al GdB: «Perchè sono in sciopero della fame»

Il testo inviato da Guido De Liso, detenuto a Verziano per un omicidio avvenuto nel 1999 nell’ambito della faida di Pianura
Un uomo in carcere - © www.giornaledibrescia.it
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Un passato da camorrista, un omicidio commesso nel 1999 e la condanna al fine pena mai che sta scontando a Verziano. Guido De Liso, 52 anni, è all’ergastolo per l’omicidio dell’assicuratore Giustino Perna, ucciso il 30 aprile 1999, per una vendetta trasversale nell’ambito della faida di Pianura, quartiere della periferia occidentale di Napoli. Da inizio settembre è recluso nel carcere bresciano in regime di semilibertà e dal 26 settembre ha iniziato lo sciopero della fame e della sete per protestare contro un cambio – denuncia lui – del programma trattamentale che gli permette di trascorrere fuori dal penitenziario la giornata per lavorare e fare rientro in cella solo la sera.

«Questa è concretamente una forma di terrorismo psicologico. Infatti, consapevole della mia condanna, ho scritto al nostro Presidente affinché potesse mutare la mia condanna all’ergastolo in pena di morte» ha scritto De Liso in una lettera-sfogo che abbiamo pubblicato nella sezione «Lettere al Direttore».

Qui vi riportiamo il testo completo. 

Salve, mi chiamo Guido De Liso.
Sono un condannato all’ergastolo, detenuto da oltre 24 anni e da 2 ammesso al regime di semilibertà, almeno lo sono stato fino a prima del mio arrivo a Verziano (BS).

Non nascondo che i miei primi anni di carcere sono stati abbastanza turbolenti, fino a quando non ho fatto un incontro speciale che man mano mi ha mostrato un punto di vista totalmente diverso. Ho incontrato la cultura!

Sono entrato in carcere che non sapevo né leggere né scrivere. Ho incontrato persone molto speciali: persone che non dovrebbero mai mancare nelle carceri: gli insegnanti, portatori di speranza e salvezza!

Ho frequentato un corso di alfabetizzazione, ho ottenuto la licenza media, mi sono diplomato e sono iscritto al corso di filosofia presso l’Università Statale di Milano.

Faccio parte della redazione di “Ristretti Orizzonti”, partecipo a molti progetti, tra cui “La scuola entra in carcere e il carcere a scuola”, portando la mia testimonianza di vita e quanto la scuola può essere salvezza per un ragazzo.

Ho partecipato a diversi convegni presso l’Università Statale di Milano, insomma la mia consapevolezza che la mia conoscenza è pari a zero mi porta sempre a guardare oltre e pensare ad ogni cosa sempre come un nuovo punto di partenza e mai un arrivo.

Tutto questo ha portato il mio magistrato di Padova ad ampliare il mio programma trattamentale. Infatti uscivo alle 6.30 del mattino e rientravo alle 21 dal lunedì al venerdì, mentre il sabato e la domenica uscivo al mattino alle 5 e rientravo alle 23.

Proprio per permettermi di reinserirmi nel mondo lavorativo, avrei potuto coltivare i miei affetti (Infatti, il sabato e la domenica mi permetteva di venire a Brescia, dove risiede la mia compagna), tanto per continuare i miei studi universitari e le relazioni sociali che erano. Tutto questo fino a quando sono stato a Padova.

Un po’ di mesi fa, tramite il mio docente di criminologia, sono riuscito a trovare una proposta di lavoro a Brescia, quindi l’idea finalmente di poter coltivare con più disponibilità i miei affetti familiari, avere uno spazio tutto mio dove poter studiare.

La mia ignoranza non mi ha permesso di sapere che c’è uno Stato bresciano, perché davanti ad ogni richiesta la risposta è sempre uguale: “qua siamo a Brescia e funziona così!”

Sono arrivato a Brescia il 5 settembre 2025 e mi trovo in uno stato detentivo che paragonarlo a quello dei miei primi anni di carcere sarebbe poco. Ho incontrato il mio supervisore dopo solo 7 giorni dal mio arrivo, entusiasta di quanto aveva trovato nel mio fascicolo personale, tanto da provvedere a preparare un nuovo piano trattamentale con orari dalle 06:00 alle 23:00 dal lunedì alla domenica.

Programma firmato anche dalla direttrice dell’istituto e quindi inviato al magistrato per l’approvazione. Almeno così dovrebbe essere!

Il 26 settembre vengo convocato dal mio supervisore convinto di presentare il mio atteso programma trattamentale e finalmente uscire dal carcere e riprendere quella che fino a 21 giorni prima era la mia vita.

La notizia ricevuta non è stata questa ma tutt’altro. Il magistrato aveva rigettato la richiesta della direttrice e del supervisore, chiedendo orari molto più ristretti, rientrare tutte le sere alle 19. Questo non mi avrebbe permesso di coltivare i miei affetti, lo studio, cioè uno stato regressivo, violando in questo modo il “principio di non regresso nel trattamento”.
La cosa ancora più grave è il fatto che tutto questo mi è stato detto a voce, senza alcuna comunicazione formale, dove io avrei almeno potuto impugnare, quindi esprimere le mie ragioni, legge garantita del nostro Stato italiano.

Tutto questo è davvero assurdo se pensiamo che la nostra Costituzione dice che è dovere rieducare soggetti devianti affinchè possano essere restituiti alla società come persone migliori!

Questa è concretamente una forma di terrorismo psicologico.
Infatti, consapevole della mia condanna, ho scritto al nostro Presidente affinché potesse mutare la mia condanna all’ergastolo in pena di morte!

Sinceramente non riesco ad accettare una regressione senza motivazione del mio trattamento e dal giorno 26 settembre ho iniziato lo sciopero della fame e della sete!

Qualcuno dice che esiste un’altra vita, magari in quella non sarò solo il mio errore.

Auspico che questa mia lettera venga pubblicata in primis per il sottoscritto e per tutti quei detenuti che subiscono la stessa tortura in silenzio.

Guido De Liso

La risposta della direzione

di Giorgio Bardaglio

È la seconda volta, Guido, che pubblichiamo la lettera di un condannato all’ergastolo, in questa pagina dei lettori che è «uno spazio di libertà, anche per chi la libertà l’ha persa a causa di un omicidio».

Lo facciamo, come sempre, cercando di avere rispetto per tutti. Sia per lei che sta scontando la pena più severa, sia per chi ha perso la vita e nessun sacrificio gliela potrà restituire.

Ci importa riflettere su quanta sofferenza reca una scelta di violenza – per le vittime e pure per i carnefici – e su quanto sia arduo tradurre nel concreto il principio della pena riabilitativa e non confinata soltanto a punizione.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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