Cronaca

Brescia e «l’economia di mafia»: nel 2024 tremila operazioni sospette

Elio Montanari
I dati confermano «un radicamento mafioso viscido», afferma il procuratore capo Francesco Prete: ora è più una mafia «in giacca e cravatta» con gli imprenditori che da vittime diventano alleati
Una busta di banconote
Una busta di banconote
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Un’ombra si aggira per la nostra provincia. Non si vede, almeno non in modo così evidente, non fa rumore eppure abbiamo una pluralità di indizi della sua presenza. Parliamo della criminalità organizzata, dell’ndrangheta in particolare, e del suo radicamento nel tessuto economico della città di Brescia e della provincia.

A dirlo sono le indagini, dall’operazione «Atto Finale» (datata 2021) alla più recente dell’operazione «Tuono», dati che confermano «un radicamento mafioso viscido che rende difficile il nostro lavoro» come affermato dal procuratore capo di Brescia Francesco Prete.

I numeri

Partiamo dall’analisi dell’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (Uif), organismo di Banca d’Italia: i dati 2024 parlano, per la provincia Brescia, di 3.142 Sos (Segnalazioni di operazioni sospette) ascrivibili alla criminalità organizzata. Riscontro che posiziona Brescia al quinto posto della classifica nazionale, preceduta da Milano, Roma, Napoli e Torino, ma davanti a Palermo, Salerno e Caserta. Se poi facciamo riferimento al 2023, le Sos in provincia di Brescia sono state il 41% sul totale di quelle registrate. Valore che, nella graduatoria nazionale, è inferiore solo a quello di Caserta (51,3%), Napoli (49,4%), Salerno (43,9%) e Palermo (41,3%).

A questo punto non si può più parlare di «infiltrazione mafiosa», come ha osservato il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo: «La stessa nozione di infiltrazione mafiosa nell’economia è fuorviante: stiamo assistendo a un processo di immedesimazione in cui l’economia criminale non si contrappone al mercato, ma ne conosce le regole e cerca di usarle ai propri fini».

Lo scenario

Tornando al quadro generale, le indagini che si sono susseguite hanno evidenziato tutto il campionario di attività illecite che connota le modalità di azione proprie della ’ndrangheta nelle regioni del Nord. Non manca niente, a cominciare dalle numerose società «cartiere», italiane ed estere, capaci di movimentare decine di milioni di euro, derivanti da un sistema basato su fatture per operazioni inesistenti. «Nel loro agire, i criminali – scrivono gli inquirenti –, hanno dimostrato capacità camaleontica di stare al passo con i tempi e di essere in grado di far evolvere le proprie strategie economiche».

Come osservato dal procuratore Prete, «siamo davanti a imprenditori che non sono più vittime della ’ndrangheta ma alleati: ne cercano il supporto per frodare insieme il fisco, mentre i proventi di questi traffici vengono reinvestiti dalla ‘ndrangheta in attività legali».

Si tratta, in buona sostanza, di una mafia diversa da quella tradizionale, criminali «in giacca e cravatta» capaci di giostrare tra attività illegali ed altre apparentemente legali, al fine di reimpiegare capitali illeciti. Sodalizi che, comunque, grazie alla natura criminale , esercita una formidabile capacità di intimidazione. «Una mafia quindi ben organizzata e molto più insidiosa, perché apparentemente rispettabile e più difficilmente riconoscibile».

Lo spaccato che ci viene offerto è davvero inquietante, perché evidenzia la capacità di inserimento e di contaminazione nelle attività legali e la pervasività anche in ambienti economici e politici. Claudio Castelli, che per sette anni e mezzo ha guidato la Corte d’Appello di Brescia, non usa eufemismi per descrivere la zona grigia nella quale proliferano certe attività: «Penso soprattutto – spiega Castelli – a quell’area di professionisti che collaborano con la criminalità organizzata senza farsi troppe domande».

La relazione

Affermazioni, del resto, coerenti con le segnalazioni contenute nell’ultima Relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia, che analizza la criminalità organizzata in Italia nel periodo tra gennaio e dicembre 2024. In Provincia di Brescia, si legge, «pregresse risultanze investigative e di analisi hanno dato contezza circa gli interessi criminali delle ‘ndrine Pesce-Bellocco di Rosarno, Facchineri di Cittanova e Megna di Papanice».

Anche la Dia evidenzia come nel Bresciano «la presenza mafiosa sia meno propensa al controllo del territorio e più interessata all’investimento, al riciclaggio e alla penetrazione nell’economia legale» e, pur confermando la presenza di camorristi e soggetti legati alla Sacra corona unita, indica chiaramente come un ruolo di primo piano spetta soprattutto ‘ndranghetisti «capaci di sviluppare importanti e remunerative alleanze con diversi professionisti locali».

I segnali di allarme vanno colti nella loro gravità, perché il contrasto alle mafie non è problema che riguarda solo la polizia giudiziaria e la magistratura ma l’intera collettività. Serve uno scatto di consapevolezza per contrastare il radicamento del crimine organizzato nel tessuto economico-sociale bresciano e nelle istituzioni. Bisogna, in altri termini, accendere i riflettori su quell’ombra che si è allargata negli anni della crisi determinata dalla pandemia e che rischia di colonizzare, come in altre aree della Regione, importanti comparti dell’economia locale.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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