Era la notte di Ferragosto del 1990: 35 anni fa la strage di Torchiera

Il 15 agosto 1990, nella villetta di Torchiera di Pontevico, una famiglia venne sterminata. Fu un atto così brutale da segnare per sempre la comunità. Trentacinque anni dopo resta il dolore dell’unico superstite – Guido Viscardi – che ogni giorno si confronta con un passato segnato dalla perdita dei suoi affetti più cari. La strage di Torchiera, che porta la firma di Ljubisa Vrbanovic, detto Manolo, e Ivica Bairic, ha lasciato ferite ancora aperte nel territorio e nella memoria collettiva.
La strage
Fu proprio la notte di Ferragosto del 1990 quella in cui Ljubisa Vrbanovic e Ivica Bairic colpirono la casa dei Viscardi, una famiglia conosciuta in paese per la loro azienda di allevamento di polli. Mentre Pontevico concludeva i festeggiamenti per l’Assunta, i due si introdussero nell’abitazione armati di una 357 Magnum Smith&Wesson e di una pistola calibro 22. Luciano Viscardi, ventinovenne fratello di Guido, si accorse dei malintenzionati e tentò di difendere la famiglia e la casa. I colpi di pistola furono rapidi e letali e segnarono la fine per lui, per il padre Giuliano, la madre Agnese e la sorella Maria Francesca.
Alle prime luci del 16 agosto 1990, Guido Viscardi si accorse subito che qualcosa non andava: la scia di acqua e sangue fuori dalla villetta, il cancello socchiuso e le persiane ancora abbassate erano un chiaro presagio. Una pallottola aveva perforato un calorifero, provocando l’allagamento della casa.
Le indagini iniziarono subito, nonostante le difficoltà dovute al periodo festivo e all’isolamento della villetta immersa tra i campi. Un testimone segnalò una Mercedes sospetta nei paraggi.

La Squadra Mobile, coordinata da Nando Dominici e dal vice Gilberto Caldarozzi, insieme all’ispettore Primo Sardi, partì da quell’indizio. La vettura risultò essere un taxi rubato nelle Marche, dotato però di un telefono dal quale erano partite quattro chiamate verso Kragujevac, in Serbia, nei domicili di Vrbanovic e Bairic. Un elemento che fu decisivo per l’indagine: nell’ottobre successivo Manolo – conosciuto poi come «il killer dagli occhi gialli» – venne arrestato, mentre Bairic, suo nipote, riuscì inizialmente a fuggire, ma perse la vita poco dopo in uno scontro a fuoco. Pur di non finire nelle mani della Polizia si tolse la vita con la stessa arma utilizzata nella strage, lasciando così un’ulteriore prova del suo coinvolgimento.
Il processo e la tomba di Manolo
Manolo fu processato in Serbia e condannato a 40 anni di reclusione. Morì nella sua terra d’origine, nel marzo 2014, a causa di un tumore. Tuttavia, la giustizia italiana, all’oscuro della sua morte, avviò un nuovo procedimento nel dicembre 2015, che si arenò non appena emerse il certificato di morte nell’anno seguente.
Solo con il ritrovamento della tomba, situata in un piccolo cimitero di Ilicevo, frazione nei pressi di Kragujevac, dopo 27 anni fu possibile chiudere definitivamente il caso. A trovarla fu Pierpaolo Prati, giornalista del Giornale di Brescia, che la osservò con i propri occhi e la fotografò.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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