Una chiesa storta tra rischiarato orizzonte e occhi di drago

Grandiosità dello spazio e introspezione artistica si fondono per coronare la salita all’Eremo di San Giorgio di Caino
Negli affreschi un fiero San Giorgio a cavallo - © www.giornaledibrescia.it
Negli affreschi un fiero San Giorgio a cavallo - © www.giornaledibrescia.it
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Esistono luoghi che per qualche ragione ti sembrano la tua destinazione finale. Vorresti (non oggi) fossero l’ultimo posto che vedi, che ami. L’ultima meta, l’aspirazione estrema. Che dia senso alla tua idea di grandiosità, spazio, introspezione. Ed ecco l’eremo di San Giorgio a Caino, che si apre verso le vette, il lago e tanto altro e insieme si chiude in un minimo spazio di pareti affrescate. Qui il dentro e il fuori si confondono all’unico scopo di dare un senso a quell’esperienza comune a tutti che è la vita.

La salita non è breve, ma perché mai dovrebbe esserlo? Il risultato è un panorama che supera la tua capacità di osservazione e una chiesa un po’ storta. Ma chi non lo è? Ti rappresenta. D’altronde nel salire non sei andato sempre diritto, ma sei comunque giunto alla meta. Guardi ciò che si stende intorno a te e riesci a descriverlo con un aggettivo in apparenza banale: bellissimo. E ti rendi conto di quante volte lo usi a sproposito.

La chiesa

Entri in questo edificio umile e trovi riprodotta in figure antropomorfe un’altra idea di bello, quella non creata dalla natura ma dalla mano dell’artista. Di quella persona che è salita in cima e ha provato a descrivere con tratti umani l’infinito. Con colori vivi, con immagini che respirano la stessa aria leggera che c’è fuori. La stessa (forse allora di qualità migliore) che respiravano le suore domenicane, gli eremiti e anche i banditi, che, in tempi in cui il sito era abbandonato, avevano qui il loro covo.

Al primo Cinquecento appartengono gli affreschi alle pareti. Sembrano più antichi, un po’ per il logorio del tempo e un po’ per quello che viene definito attardamento culturale, ma mezzo millennio stavolta basta a perdonare ogni ingenuità. Nell’abside un Cristo Pantocratore nella sua mandorla, alla sua destra un leone (molto veneziano) e a precederlo un’Annunciazione. Un fiero San Giorgio, biondo ma non di eterea bellezza, in armatura corrusca (corrusco è anche il mostro, nelle sue lucide squame), affronta un animale mitologico la cui immagine in parte è stata cancellata dalle varie vicissitudini e in parte no. Lunga coda, ala e zampa illustrano la sua pericolosità. Ad aggiungere pathos, nel bianco della parte mancante, compaiono quelli che sembrano due occhi, a significare che i draghi, per quanto bene si nascondano, ti fissano sempre.

E tutto ciò vive nella testa pensante della montagna, nascosto da un’umile facciata senza alcuna pretesa se non quella di separare, ma non troppo, due mondi vicini. Torni a casa con la mente rischiarata dall’ampio cielo, addolcita dal silenzio del romitorio e dalla tenerezza delle pitture. E, in tanta beatitudine, senza che tu lo voglia, spuntano dal nulla due occhi di drago, che forse sono solo nella tua fantasia. Ma a che serve la fantasia se non a immaginare ciò che non c’è ma non è detto non esista?

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