Un angelo sulla mia panchina (che non è nemmeno mia)

Clementina Coppini
La storica rocca che domina l’abitato di Padenghe, da cui si gode di suggestiva vista del lago, si è tramutata nel tempo in un luogo dell’anima
Uno scorcio di Padenghe e del lago dall’antico maniero
Uno scorcio di Padenghe e del lago dall’antico maniero
AA

C’è una panchina, subito fuori dal castello di Padenghe, seduta sulla quale, dalla tarda infanzia in avanti, non so più quante ore ho passato a guardare il lago. Chissà, al posto di tergiversare in tale attività avrei potuto fare cose più utili, ma forse sono nata per fissare uno specchio d’acqua.

Il panorama è un’estasi, ma non sono certa di averlo osservato con la giusta attenzione, perché sono spesso andata lì a soffrire, a digerire bocconi amari, a introiettare la bellezza per espellere il dolore, a cercare di capire cosa fare del poco che sono. Non è una panchina gigante, non artistica e nemmeno sola. Di fianco a lei ce ne sono altre, a guardare il Garda.

Il castello

Alla sua destra si snoda la poderosa stazza di quello che nel XII secolo era un castello ricetto dove gli abitanti della zona trovavano rifugio da conquistatori, razziatori, soldataglia e brutta gente (quella non manca mai), oggi zona residenziale. Se lo contesero bresciani, veronesi, milanesi e veneziani, finché questi ultimi ebbero la meglio. Ha mura perimetrali poderose con una torre alta venti metri, ma alla sua base l’arco d’ingresso è aperto. Dentro sorgono case solide ma aggraziate. Il luogo è una metafora della raggiunta pace con se stessi: saldo ma senza paura degli estranei, imponente e insieme accogliente.

La panchina

Fuori la mia panchina. Che ovviamente non è mia, ma in un certo senso le appartengo. Lei conosce ciò che ho perso, chi ho perso, ciò che ho inutilmente sperato, ciò per cui, se mi venisse facile piangere, piangerei. Tante volte – in quelle giornate limpide in cui l’unica nota cupa è il tuo cuore – sarebbe stato il massimo per me veder apparire l’arcangelo Gabriele. Non per annunciarmi chissà che. Avrei solo desiderato si accomodasse di fianco a me (chissà dove mettono le ali gli angeli quando si siedono) e mi ascoltasse.

Lo avrei annoiato per giorni interi (ma cos’è un giorno di una vita umana rispetto a un’eterea eternità?), da giovane con le delusioni amorose e la morte di mia madre, da adulta con ansie lavorative, sogni infranti, perdite varie e altri disastri, più avanti negli anni con le preoccupazioni per i figli, per malattie mie e altrui. Di recente con i mali del mondo.

Non ricordo più se la panchina è cambiata. L’ambiente sì, infittito di edifici com’è. Sono cambiata io, che non riesco più ad allungare lo sguardo senza pensare ai due giovani travolti da un motoscafo e lasciati morire soli, alla studentessa di prima superiore che si è uccisa lanciandosi dal Sasso di Manerba.

La vista che credevo di non aver mai guardato invece fa parte di me. La studio e descrivo da anni. Oggi sono qui, viva. La giornata è spettacolare e aspetto ancora che arrivi un angelo a farmi compagnia. Gabriele, vieni a sederti vicino a me a guardare l’orizzonte. Prometto che rimarrò in silenzio, perché ho imparato che ciò che ho intorno è immensamente più immenso di me.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Icona Newsletter

@Buongiorno Brescia

La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.