Nella chiesa di Burago, un passaggio verso l'infinito insieme ai dodici apostoli

A Burago di Muscoline c'è un sorprendente stucco policromo di grandi dimensioni che rappresenta la «Dormitio Virginis»
La «Dormitio Virginis» di Burago (particolare)
La «Dormitio Virginis» di Burago (particolare)
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Per indecisione secolare, la chiesa nel tempo fu alternativamente intitolata a Maria Assunta e a Maria Nascente, sebbene ancora oggi gli abitanti di Burago l’otto settembre festeggino la venuta al mondo della Beata Vergine. Il piccolo villaggio agricolo, un anno dopo la scoperta dell’America, contava 58 anime, all’Unità d’Italia 67, ragione per cui fu annesso a Muscoline.

Un borgo connesso alle proprie radici, raccolto intorno a questa pieve, sulla cui retrofacciata si legge una targa: «La Comunità di Burago pose a ricordo del terremoto del 24 novembre 2004 a gloria di Dio nel giorno dell’inaugurazione dopo il restauro domenica 11 ottobre 2009». Capite quanto questa gente ci tiene? Fu Carlo Borromeo a ordinare, nel 1580, che la chiesa fosse ampliata, così vennero aggiunte due cappelle laterali. In quella più vicina all’altare marmoreo (con la pala dell’Incoronazione di Maria, forse di Antonio Gandino) c’è una tavola lignea con una Madonna dallo sguardo di rara profondità di chi ha compreso l’alfa e l’omega dell’esistenza. Ma è l’altra cappella a lasciare stupiti.

L'opera

Chi mai si aspetterebbe, in uno spazio così ristretto, una sontuosa Dormitio Virginis, altrimenti nota come Transito? Si tratta del momento in cui la Vergine, alla presenza degli Apostoli, viene Assunta in cielo. Transito perché appunto è un passaggio, Dormitio Virginis perché la Madonna, prima di ascendere in Paradiso con anima e corpo, cade in un sonno che simula la morte. L’ignoto autore, maestro dello stucco policromo, aveva ben in mente la solennità di un evento più unico che raro.

Il gruppo statuario sembra letteralmente uscire dalle pareti per circondare la Madre del Salvatore, che non porta alcun segno di sofferenza: ha l’aspetto che deve avere una creatura eterea destinata all’eternità. Lei e la teca che la contiene sono ottocentesche, mentre gli Apostoli sono più vecchi di circa un paio secoli. Malgrado le notevoli dimensioni, l’opera, gigantesca in proporzione alla struttura in cui si trova, è di una grazia disarmante. La presenza delle undici imponenti figure dà l’impressione che in questo luogo, anche quando è vuoto, ci sia qualcuno.

Ci sono Andrea, Pietro (già vestito da Papa), Filippo, Giovanni, Simone, Matteo, Bartolomeo, Mattia (sostituto di Giuda), Giacomo Maggiore, Giacomo Minore, Taddeo. Mancano appunto Giuda (per ovvi motivi) e Tommaso (perché non aveva creduto). Sopra ciascuno di loro il nome. È come incontrarli per la prima volta e per la prima volta capire che non erano un gruppo indistinto di seguaci, ma persone. Uomini, forse con i tratti di antichi abitanti di Burago, che, mentre guardano la madre di Gesù dormire, fanno compagnia a chiunque capiti qui. Ed è questo il senso ultimo della Fede: non essere soli quando si è soli e non esserlo nemmeno nell’ultimo obbligatorio passaggio, quello verso l’infinito e oltre.

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