La chiesetta di Sant'Onofrio cara agli alpini di Sabbio Chiese

La storia di un edificio che nel 1988 è stato rimesso a posto pezzo per pezzo: un racconto di operosa e irresistibile dedizione
La chiesetta di Sant'Onofrio a Sabbio Chiese - © www.giornaledibrescia.it
La chiesetta di Sant'Onofrio a Sabbio Chiese - © www.giornaledibrescia.it
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Capisci subito quando stai per innamorarti. Non è questione di aspetto estetico o virtù. Forse è l’insieme di queste cose, forse no. Il fatto è che lo sai. Sai di appartenere in qualche modo a chi o a ciò che hai davanti. Un luogo, per esempio. Magari in un’altra vita abitavi lì oppure semplicemente sei attratto dall’idea di un romitorio sopra un colle da cui osservare la vallata. Purtroppo intervallata dai tetti dei capannoni, ma la posizione sopraelevata ti consente di guardare oltre.

Ciò che, oltre al panorama, vedi qui oggi, a Sant’Onofrio di Sabbio Chiese, è la dedizione di coloro che questo edificio non l’hanno aggiustato, bensì medicato, guarito. Era ridotto male e gli alpini l’hanno rimesso a posto pezzo per pezzo, con le loro mani, nel 1988. Hanno pulito una a una le formelle secentesche del soffitto e il parroco ha fatto restaurare un dipinto raffigurante Santa Lucia e Santa Apollonia. A ricordo di suo padre, tornato vivo da Nikolajewka. E a questo punto capisci tutto: il prima, l’adesso e il dopo.

La sede degli alpini

Subito fuori, presso il roccolo che circonda come un abbraccio il limite dello spuntone di roccia sospeso sulla valle, c’è una luminaria a forma di cappello di alpino. Quando è accesa è visibile a chilometri di distanza. Attaccata alla chiesina c’è la sede degli alpini. Si tramandano il dolore della guerra e hanno trasformato tale sapienza in attenzione. Non generica, bensì specifica: per un pezzo di montagna, un eremo, per chi ha bisogno.

Ci sono tante foto. A una tengono più di tutte: è quella dei reduci di Russia da anziani, dei pochi che sono tornati. Così, quando si arriva a Sant’Onofrio, non si è lì per valutarne i meriti artistici. Si è lì per comprendere quella meravigliosa forma d’arte che nasce dalla fatica donata per ricostruire ciò che è rotto, dal bosco curato, dalla roccia, dal cuore. Nella chiesa ci sono opere d’intaglio come il leggio, che ha alla base uno scarpone da alpino. E gli ex voto, due dei quali, antichi, sono stati restituiti da chi poteva tenerli per sé ma ha ritenuto giusto tornassero nel luogo cui erano stati destinati. La retorica per fortuna è lontana millenni luce da qui.

In questa pulita essenzialità finalmente si respira. Guardi la foto dei vecchi soldati sopravvissuti alla campagna di Russia e nei loro occhi trovi tutti coloro che non sono tornati. Sono infine riuniti, in quella immagine e negli sguardi degli alpini che in guerra per motivi anagrafici non sono mai andati, ma hanno ben compreso cosa hanno provato quelli che sono stati laggiù. In questo angolo, lontano dalle tristezze umane ma di esse consapevole, questi uomini si sono fatti custodi della memoria e praticano un’operosità che rigetta la visibilità. Come si può non innamorarsi di tanta bellezza?

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