Da carceri a casa della comunità: la storia del Palazzo Pretorio di Bergamo

Il palazzo di Vilminore di val di Scalve, prigione edificata nel XIV secolo, che ha fatto penitenza e ha smesso di essere un penitenziario
Il Palazzo Pretorio a Vilminore di val di Scalve (Bergamo)
Il Palazzo Pretorio a Vilminore di val di Scalve (Bergamo)
AA

Anche questa rubrica partecipa con un apporto specifico all’anno di Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura 2023, e lo fa attraversando l’Oglio per «spedire» ai lettori bresciani qualche cartolina anche dalla terra orobica. Il signorile palazzo di Vilminore di val di Scalve (Bergamo), a dispetto della sua innocua grazia, ha un passato dai variegati risvolti.

Ora c’è la Comunità Montana, secoli fa c’era il podestà, responsabile dell’amministrazione della giustizia per conto della potente Comunità Grande di Scalve, che fin dall’anno Mille governava la valle e faceva arrivare i giudici da fuori, affinché fossero imparziali. Evoluti gli Scalvini, vero? Poiché il podestà aveva parecchio da fare, i valligiani decisero, nel gennaio del 1375, di costruirgli una sede nella piazza del Malconsiglio. Nome non molto promettente, ma in realtà mal viene da mael, che sembra indicasse un luogo di adunanze.

L’edificio, all’inizio un torrione con annesse prigioni, fu chiamato Palazzo Pretorio. Poi, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, la struttura venne ampliata e abbellita, malgrado il permanere delle carceri. Questo palazzo, voluto da una comunità florida e senziente, ha una delicata facciata affrescata con immagini di putti, motivi vegetali e leggiadre figure femminili. No, questi non erano montanari incolti, bensì una collettività organizzata e consapevole. Non si può liquidare come un caso qualcosa di tanto sofisticato.

Il lato oscuro del palazzo

Sofisticato ma con un lato oscuro. Come il porticato, segnato da tre poderose arcate, preambolo al buio della galera. Come l’anello di ferro, ancora inserito in facciata, al quale venivano legati i colpevoli, messi alla berlina ed esposti al ludibrio. Carne per bulli. Posta sopra una mensola murata, un’epigrafe illustra, con una lugubre frase in latino, come lì venissero esposte le teste mozzate dei banditi. Simpatici retaggi della Serenissima. Una scala quasi monumentale conduce alla magnifica (forse non per chi ci arrivava in catene) sala delle udienze, con il grande camino, il soffitto ligneo e gli stemmi dei molti pretori succedutisi nella carica, i cui ritratti su tavola sono stati in gran parte sottratti durante le invasioni napoleoniche.

Le prigioni erano dotate di celle anguste, collegate al mondo esterno attraverso una microscopica finestra con inferriate doppie. Da lì passavano poca luce, poco cibo e poco altro. E come facevi a scappare da questo posto, di aspetto gentile ma sede di severe sentenze e draconiane punizioni? Eppure così era, perché ancora oggi senti l’oppressione delle celle (pur sinistramente belle, foderate come sono da travi di larice con chiodi e spranghe in metallo), all’interno delle quali i detenuti si consumavano nella detenzione o attendevano l’esecuzione.

Questo edificio, il cui aspetto piacevole è tanto lontano dalla sua destinazione d’uso, racconta di sofferenza e privazione di libertà e di vita, ma anche di ricerca di unità, autonomia e giustizia. È una gattabuia, ma anche qualcosa di più: un carcere di montagna che ha fatto penitenza e ha smesso di essere un penitenziario.

Icona Newsletter

@Buongiorno Brescia

La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia