Vaccini, febbraio porta a Brescia 61.600 dosi

Dopo la notizia del giorno, vale a dire il via libera dell’Aifa ad AstraZeneca, l’Italia riscrive il suo piano vaccinale. Un calendario di forniture che la Conferenza Stato-Regioni ha iniziato a rivedere e studiare durante il vertice di ieri, quando - oltre a fare il punto sulla tabella di marcia aggiornata a venerdì 29 gennaio, al netto dei ritardi da parte delle aziende produttrici - il commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, ha disegnato la mappa della distribuzione per il mese di febbraio.
Una buona notizia, quindi: con l’arrivo dei nuovi sieri, infatti, lo Stivale potrà contare su ulteriori 3,4 milioni di dosi entro il primo trimestre dell’anno, in attesa che Pfizer e Moderna recuperino a marzo i tagli annunciati nei giorni scorsi. Alla Lombardia, in febbraio, dovrebbero essere recapitate in totale 678.480 dosi e, di queste, oltre 61.600 sono quelle che spetterebbero a Brescia.
La fumata bianca dell’Aifa, con l’indicazione per l’utilizzo preferenziale a persone tra i 18 e i 55 anni, dà di fatto il via al primo step per la vaccinazione di massa, come ha sottolineato lo stesso ministro della Salute, Roberto Speranza, parlando di «fase espansiva» del piano. In questo quadro, la nostra provincia dovrebbe insomma orientativamente ricevere nel mese di febbraio 61.679 dosi, pari a circa il 10% di quelle lombarde.
Una fornitura, quella messa a punto durante la conferenza Stato-Regioni, che si basa su una proiezione settimanale e che contempla l’approvvigionamento da tutte e tre le aziende: Pfizer, Moderna e AstraZeneca. Se il cronoprogramma non inciamperà in nuovi intoppi, quindi, da domani al 7 febbraio la nostra provincia dovrebbe incamerare 8.667 confezioni, per passare poi la settimana seguente a 16.328 e arrivare alla terza di febbraio (dal 15 al 21) a quota 19.648 sieri, scendendo poi a 17.036 nell’ultima settimana del mese.
I governatori hanno confermato il loro sostegno al piano, chiedendo però revisioni mensili in base alla distribuzione e una nuova riunione sarà programmata nei primi giorni della prossima settimana per affrontare i temi rimasti in chiaroscuro, imbrigliati in controversie che ora devono trovare necessariamente una sintesi. A partire - ad esempio - dall’impiego degli specializzandi (questione particolarmente cara all’assessore regionale al Welfare, Letizia Moratti), come pure l’eventuale impegno dei medici di medicina generale e delle farmacie.
Il punto chiave, insomma, è sempre lo stesso: garantire la distribuzione e la somministrazione dei vaccini il prima e il più capillarmente possibile. A ribadirlo ai governatori, ieri, è stato il ministro agli Affari regionali, Francesco Boccia: «Dobbiamo somministrarli in tempi rapidissimi» ha ripetuto, perché «non possiamo abbassare la guardia fino all’entrata a regime dei vaccini. Continuiamo a mantenere alta la pressione sulle aziende farmaceutiche per il rispetto delle forniture».
Riparte proprio da qui l’idea alla quale sta iniziando a lavorare la vicepresidente della Lombardia: arrivare ad autoprodurre a casa nostra i sieri, così da ampliare il più possibile le dosi disponibili. Una strada sulla quale Moratti ha insistito anche durante il conclave di ieri rivolgendosi proprio ad Arcuri e incontrando più di qualche consenso da parte degli altri governatori. Ma si tratta di una via praticabile? E se sì, in quanto tempo? Lo scenario non è affatto inverosimile. L’obiettivo è non dovere più dipendere esclusivamente dalle forniture delle case farmaceutiche, che hanno già fatto slittare di giorni la fine della fase 1 a causa dei ritardi nella consegna delle dosi. Per farlo, bisogna sostanzialmente chiedere alle società titolari dei brevetti di ampliare la loro capacità di produzione e, quindi, bisogna innanzitutto incamerare l’ok di Pfizer e Moderna.
La seconda mossa da mettere a segno è trovare un’impresa lombarda, o comunque italiana, disposta a convertire le proprie linee di produzione pensate per il farmaco in linee dedicate alla fabbricazione di vaccini grazie anche ad un investimento statale. Tutto questo per conto delle «case madri», e quindi utilizzando appunto i loro brevetti, alle quali riconoscere dei margini e garantire così l’ampliamento della distribuzione del loro prodotto. Se queste caselle dovessero incastrarsi, l’operazione sarebbe attuabile nell’arco di qualche mese. E non è escluso che proprio Letizia Moratti stia lavorando a un’indagine approfondita per sondare la disponibilità delle industrie papabili. «Abbiamo due tipi di licenze, facoltativa e obbligatoria - ha ricordato la vicepresidente durante l’ultima Commissione Sanità -: quest’ultima serve per superare il vincolo di brevetto e deve avere l’assenso delle ditte già produttrici. Non è un percorso facile, perché c’è la necessità di apparecchiature speciali e di competenze, ma è sicuramente un tema che sto analizzando. Mi riservo di fare valutazioni più puntuali».
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