Tra i cimeli, lo schizzo della cupola del Duomo in fiamme

In molti hanno portato foto e documenti al GdB per il progetto «Brescia sotto le bombe»
  • Le testimonianze entrano in redazione, con «Brescia sotto le bombe»
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L’allarme veniva dato con 6 suoni di 15 secondi, intervallati da pause di uguale tempo. Quando accadeva, le persone abbandonavano qualsiasi attività, per precipitarsi nel rifugio più vicino, mentre sulla città venivano scaricate tonnellate di bombe.

«Nel 1944 frequentavo la seconda liceo classico al Fontanone ed il rifugio più vicino era l’imbocco della galleria sotto il castello. All’epoca, i lavori per scavarla erano appena iniziati. Noi ragazzi ci rifugiavamo lì sotto e stavamo lì, al buio, nella più totale confusione, in attesa del cessato allarme. Poi, ritornavamo in classe. Le ore di lezioni erano all’epoca della guerra ridotte all’osso: da sessanta minuti, erano scese a quarantacinque, poi a mezz’ora. Ricordo che faceva freddo, quell’inverno in cui iniziarono a piovere bombe dal cielo e noi ragazzi portavamo la legna da casa per poterci riscaldare».

Per Sergio Bazzana, nato nel settembre 1927, l’esperienza della guerra si trasforma in molti ricordi. Che rievoca, con una precisione e una lucidità commoventi, nella ricchezza dei suoi novant’anni spesi con intelligente curiosità. Anche lui, primo fumettista di Brescia nel 1947, è uno dei testimoni del «Collection Day» che ha visto ieri decine e decine di persone ritrovarsi nella sede del nostro quotidiano e diventare «testimoni della storia».

A raccogliere le voci, le fotografie inedite, i documenti conservati negli anni, gli storici Elena Pala e Roberto Chiarini per il progetto «Brescia sotto le bombe» che confluirà in una mostra il prossimo autunno in Palazzo Martinengo. Bazzana aveva diciassette anni quando furono sganciate le prime bombe su Brescia. Su un taccuino minuscolo - lo stesso in cui annotava, con la stilografica, i compiti da fare - la cronaca di quello che è accaduto in quella primavera infuocata. «28 febbraio: allarme alle 11,05, fine attacco alle 15,10. In tutto, tredici bombardamenti da 35 formazioni dirette in Germania». Poi, ancora e ancora.

Il 2 marzo, ad esempio, lui era nella sua casa di via Boifava. «Dalle 13 le bombe vennero sganciate sul centro città, su via Cavour e su viale Venezia. Mancarono luce ed acqua e si ruppero i vetri della sala e delle camere. Poi, quando sparecchiammo, scoprimmo che la lastra di marmo del tavolo era tagliata a metà. Strano, i piatti e i bicchieri non so erano spostati di un millimetro». Sul minuscolo taccuino, c’è ancora il disegno della cupola del Duomo in fiamme nella notte del 13 luglio 1944 dopo il bombardamento alleato. «Il giorno dopo, dalla cupola si levava un fumo denso».

Marina Nascimbeni ha portato documenti, fotografie e lettere scritte dal padre Walter. «Lui era nella Marina ed era in servizio di leva quando scoppiò la guerra. Venne mandato a Tobruk, perché lui era nella Marina. Divenne prigioniero degli inglesi e venne inviato in Australia. È tornato nel 1947, sposò la mamma che lo aveva aspettato, malgrado non avesse più avute sue notizie e, insieme, emigrarono in Belgio dove lui lavorò come minatore nelle miniere di carbone».

Marina, con sè, ha le foto del padre scattate a Tripoli, ma anche in Australia. Nel campo di lavoro. Daniela Maccarinelli aveva con sè una lunga testimonianza scritta dal padre Duilio, catturato dai tedeschi a Creta l’8 settembre 1943 ed internato nel campo di lavoro di Tempeloff. Racconta le condizioni di lavoro e di vita nel campo dove, a prevalere, era la mancanza di cibo. Scriveva: «Alla cattura pesavo 65 chili, alla fine della prigionia ne pesavo 37».

 

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