«Toffaloni era in piazza Loggia e non certo da spettatore»

Le parole di Gianpaolo Stimamiglio, testimone chiave dell’inchiesta della procura su uno dei presunti esecutori materiali della strage di Brescia
Gianpaolo Stimamiglio, il settantaduenne ordinovista veneto che ha collaborato con gli inquirenti bresciani © www.giornaledibrescia.it
Gianpaolo Stimamiglio, il settantaduenne ordinovista veneto che ha collaborato con gli inquirenti bresciani © www.giornaledibrescia.it
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Se l’inchiesta sui presunti esecutori materiali della strage di piazza Loggia ha un presente e forse un futuro, in buona parte lo si deve a Gianpaolo Stimamiglio. Nato a due passi da piazza delle Erbe a Padova il 26 novembre di 72 anni fa, ma cresciuto a due passi da piazza delle Erbe a Verona, nella città del generale Amos Spiazzi, di Roberto Besutti, ma anche di Marcello Soffiati e Roberto Zorzi (giusto per citare alcuni personaggi legati a doppio filo con piazza Loggia) Stimamiglio è un ordinovista della prima ora (del Centro Studi Ordine Nuovo e non del Movimento Politico Ordine Nuovo, ci tiene a precisare).

Una dozzina di anni fa indicò Marco Toffaloni quale esecutore materiale dell’attentato che il 28 maggio del 1974 costò la vita ad otto persone e provocò il ferimento di altre 102.

Le sue dichiarazioni sono alla base del fascicolo aperto presso la procura dei minori a carico del neofascista veronese che all’epoca non aveva ancora compiuto 17 anni. Stimamiglio è stato collaboratore di giustizia, inserito nel programma di protezione per sette anni: dal 2012 al 2019. Dirigente in ambito sanitario è un plurindagato («mi hanno seguito per 25 anni ma mai condannato», sottolinea) nell’ambito di diverse inchieste sull’eversione nera.

Oggi vive con la compagna in provincia di Vicenza, a più di mille metri di altitudine. «Qui si respira bene» ha detto.

In quel circoletto a destra, nella foto agli atti, per l’accusa c’è Toffaloni
In quel circoletto a destra, nella foto agli atti, per l’accusa c’è Toffaloni

Quando incontrò Marco Toffaloni?

«Dobbiamo risalire alla fine degli anni ’80. Fu un incontro casuale, me lo ritrovai di fronte un pomeriggio di primavera a Verona. Sapevo chi era, lo ricordavo tra i giovani discepoli di Besutti. Non era un uomo di punta del movimento, occupava un posto piuttosto basso nella gerarchia. Era nella taverna di un motel veronese, di proprietà di un comune amico. Era con la compagna. Io arrivai con la donna che all’epoca era mia moglie. Loro avevano appena finito di mangiare. E di bere. Per una ragione che non ricordo ci trovammo da soli e cominciammo a parlare del passato».

Lo conosceva già?

«Certo. Era cresciuto al mito di Amos Spiazzi, era uno dei "piccoli" di Besutti. Frequentava anche mia sorella Rita e il suo giro. Ma anche Ludwig e le Ronde Pirogene».

Frequentava anche Brescia?

«Secondo me sì. Conosceva il ragazzino: Silvio Ferrari. Ferrari veniva spesso a Verona, dal generale Amos Spiazzi».

Torniamo a quell’incontro. Chi portò il discorso su piazza Loggia?

«Toffaloni. Lo fece per farsi riconoscere».

Cosa le disse?

«Ho letto da più parti che mi avrebbe detto "so stà mi". Ma non è così».

E com’è?

«Mi disse "ghero anca mi". Mi disse che quella mattina era a Brescia».

«Anca» rispetto a chi?

«Buzzi, sicuramente lui c’era».

Toffaloni era a Brescia per...?

«Non era in piazza Loggia per vedere l’effetto che avrebbe fatto lo scoppio. Se c’era era perché, in quello scoppio, aveva avuto un ruolo».

Chi ce l’aveva mandato?

«Gli chiesi se era stato Besutti, lui non mi rispose, ma sorrise lasciandomi capire che ci avevo preso».

Besutti? Non Carlo Maria Maggi?

«Besutti dava ordini a Carlo Maria Maggi. Sopra di lui c’era solo Pino Rauti. E sopra Pino Rauti il gran burattiniere della destra eversiva europea, il referente nel Vecchio Continente dei servizi segreti americani: Guerin Serac, il direttore di Aginter Presse».

Besutti è morto nel 2010, Pino Rauti nel 2012. Lei ha cominciato a fare i loro nomi proprio in quel periodo. Accusa chi non si può difendere.

«Ho fatto tanti nomi, alcune persone sono ancora vive, come Toffaloni. Altre no. Non credo però mi si possa imputare di prendermela solo con chi non ha più modo di replicare. Non è così».

Della presenza di Marco Toffaloni in piazza Loggia la mattina del 28 maggio 1974 lei ha detto di sapere dalla fine degli anni ’80. Ma si è tenuto l’informazione per sé per una ventina d’anni, nonostante avesse iniziato a dialogare con gli inquirenti a metà degli anni ’90. Perché?

«Perché la mia collaborazione è nata su piazza Fontana, dato che conoscevo Freda, Ventura. E solo successivamente si è spostata su Brescia. La collaborazione con la giustizia non nasce dalla mattina con la sera. È un rapporto che richiede fiducia e che cresce con il passare degli anni».

Perché ha deciso di collaborare?

«Perché volevo sapere la verità sul mio ambiente, chiudere il cerchio su alcuni aspetti che non mi sono mai tornati. Diciamo che mi sono accordato per uno scambio di informazioni: "tu dai a me, io do a te". E così è stato. Vivere sotto copertura, lontano da casa, senza poter lavorare non è il massimo. Di sicuro non l’ho fatto per soldi: mi avevano promesso 64mila euro per sette anni. Ne ho visti circa 2mila».

Che effetto le fa adesso essere testimone chiave di una delle inchieste più depistate della storia repubblicana d’Italia?

«Spero che il mio contributo sia d’aiuto all’accertamento della verità. Non ho mai sopportato le ingiustizie. Il dolore dei parenti delle vittime deve essere ricompensato».

Peccato il ritardo.

«Meglio tardi che mai. Io se non altro ho parlato e detto quello che sapevo. Sono uno dei pochissimi e, francamente, ne sono sorpreso. Non so come facciano tutti gli altri a convivere con i loro segreti».

Come facciano magari no, ma perché tanti non abbiano parlato riesce a immaginarlo?

«La maggior parte non parla o non ha parlato per paura di perdere denaro, lavoro, posizioni di potere. Per lo più si tratta di personaggi che con l’estrema destra italiana non hanno nulla a che spartire, ma che sono stati comprati da chi ha piegato l’ideale allo stragismo. Sono pochi, pochissimi i camerati duri e puri che non parlano perché fedeli al credo».

E lei paura non ce l’ha?

«Io non ho niente da perdere. Non ho paura di morire e non ho bisogno di nascondermi. Mi raccomando, lo scriva».

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