Strage piazza Loggia, il processo quater per Toffaloni e Zorzi gli «esecutori materiali»

Sono entrambi veronesi. Uno, il più grande, avrebbe partecipato alle riunioni in cui fu deciso come, quando e perché piazzare la bomba in piazza Loggia. L’altro, il più giovane, sarebbe stato scelto, e non si sarebbe sottratto, per infilarla nel cestino ai piedi dei Macc de le ure, per quello che Carlo Maria Maggi definì il momento sublime. Queste le accuse per le quali la procura ordinaria e quella dei minori hanno chiesto nelle scorse ore il processo per Roberto Zorzi, 69enne di Sant’Ambrogio Valpolicella, da tempo cittadino statunitense e allevatore di doberman nello stato di Washington; e per Marco Toffaloni, 65enne che all’epoca tutti conoscevano come Tomaten e che ora si è rifatto una vita in Svizzera o oggi per l’anagrafe elvetica risponde al nome di Marco Franco Maria Muller.

I passaggi
A portare le indagini sulla strada di Toffaloni fu Giampaolo Stimamiglio, ordinovista veronese. Agli inquirenti disse che il giovanissimo si confidò con lui: «so sta mì». Il coinvoglimento dell’allora minorenne per l’accusa sarebbe provato anche da una foto scattata in piazza, pochi minuti dopo l’esplosione, dal fotografo bresciano Silvano Cinelli. Al centro dell’immagine lo strazio di Arnaldo Trebeschi, sullo sfondo alcuni testimoni dell’orrore. Tra loro per il prof. Capasso, autore di una perizia antropometrica agli atti, ci sarebbe stato proprio Toffaloni. A Roberto Zorzi gli inquirenti arrivarono grazie alle parole di un frequentatore, al suo pari, della scuola dei duri e puri voluta da Stimiglio e Besutti per crescere le nuove leve dell’ordinovismo veronese.

Costui riferisce che il «marcantonio» con i baffetti alla Hitler, così veniva definito Zorzi, aveva partecipato all’esecuzione dell’attentato. Indagando sul suo conto gli inquirenti scoprono che è stato lui a portare il cuscino di fiori con l’ascia bipenne al funerale di Silvio Ferrari, il giovane bresciano dilaniato in piazza Mercato, 9 giorni prima della strage, dalla bomba che stava trasportando con la sua Vespa. Il pomeriggio dell’ultimo saluto romano a Ferrari, Zorzi partecipò agli scontri in piazza del mercato con i «rossi».

Riuscì a sfuggire all’arresto nel quale incapparono cinque suoi camerati, ma non ai controlli a Verona. Fu Delfino - proprio lui, l’ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Brescia - ad ordinare la sua perquisizione. A raccogliere il suo alibi, ma a verificarlo superficialmente, sospettano gli inquirenti. «Le due inchieste che sono approdate in queste ore alla richiesta di rinvio a giudizio - ha affermato annunciando il passaggio il procuratore aggiunto Silvio Bonfigli - si innestano nel solco del «Brescia Ter» (la pista veneta che ha portato all’ergastolo di Carlo Maria Maggi e di Tramonte, ndr), anzi ne sviluppano alcuni aspetti non secondari».
Grazie ad un altro testimone privilegiato, addentro alla frangia più giovane dell’estremismo di destra bresciano, la Procura ha riletto e riscritto la figura di Silvio Ferrari e il suo rapporto con Delfino. Ritiene che informasse il capitano dei carabinieri. Che in un appartamentino di via Aleardi incontrasse insospettabili e sviluppasse foto pesanti, scattate nei quartieri generali della Nato a Verona. Proprio la Verona di Toffaloni e Zorzi.
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