«Sono suora per ridare dignità alle persone, servono orizzonti ampi»

Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo.
«Bisogna avere orizzonti ampi». E, soprattutto, bisogna pensare che «la fede cristiana non è una dottrina, ma un’esperienza di amore e di fiducia. Altrimenti è ideologia e strumento di potere». Una visione nitida, quella di suor Catia Pintossi, missionaria della Società di Maria, trent’anni vissuti tra Perù e Colombia, poi il ritorno nel Bresciano, la sua terra di origine.
Cosa significa, suor Catia, avere orizzonti ampi?
«Come suora appartieni ad una comunità religiosa. E se un tempo questo significava puntare sulle differenze, oggi si punta su quello che ci unisce. Si cercano elementi in comune sia con gli altri enti religiosi sia all’interno della Chiesa. Ampi orizzonti, dunque, vuol dire che non c’è, o non ci dovrebbe essere, alcuna concorrenza o arrivismo da parte delle singole realtà. Siamo camminanti insieme».
È trascorso quasi mezzo secolo da quando lei è entrata nella sua comunità. Perché lo ha fatto?
«Ero ventenne, avevo studiato contabilità d’azienda e i miei progetti di vita erano altri. Erano anni in cui forte era l’immigrazione dal sud Italia e vivevo con disagio crescente il razzismo nei confronti di chi veniva da lontano per un posto di lavoro. Avrei voluto affrontare il problema con un impegno sociale e politico. Poi, no. Ho pensato che Gesù faceva proprio questo, dare dignità alle persone. Ecco, la mia vocazione è partita così. Da lì è nato il mio desiderio di accogliere che va oltre tutto. Va oltre l’appartenenza ad una specifica comunità, ma anche ad essere cattolico o musulmano».
Come si valuta l’essenziale?
«La dignità delle persone non è data da quello che uno possiede e dai suoi titoli. La dignità è connaturata al fatto che siamo esseri umani. Bisogna puntare su questo. Essenziale e autentico. E non si può essere sorella, o fratello, senza essere in relazione. Senza pensare che se ci si apre all’altro in uno scambio di umanità si dà e si riceve. L’essenziale è quello che conta e se si vuole costruire fraternità le cose esterne sono molto secondarie. È un percorso che non si definisce a tavolino perché ci si umanizza strada facendo. Camminando, appunto, nella consapevolezza che non si può essere sorelle degli altri se li si guarda dall’alto in basso. In questo viaggio, Cristo ti plasma: questa è l’incarnazione. È lì la sua ragion d’essere. Ebbene, a vent’anni ho capito questo e, con questo, ho capito che dovevo essere una religiosa non una politica».
Il ruolo oggi di Congregazioni e comunità religiose?
«Un tempo queste realtà avevano realizzato grandi opere, pensiamo agli ospedali e alle scuole, a fronte di una carenza dello Stato su molti fronti. Oggi il ruolo originario è stato superato e molte istituzioni si sono trasformate: le avevano fondate come risposta di carità, sono diventate aziende. È ancora più importante, in questo contesto, che le suore si prodighino a recuperare il senso di un agire che deve avere più che mai la persona come riferimento. Lo specifico di essere suora è proprio quello di mettere le persone al centro, soprattutto le più fragili, perché in esse riconosci il volto di Cristo».
E la crisi delle vocazioni?
«Le comunità religiose tradizionali stanno compiendo una transizione lenta e una dolorosa lettura della realtà. Il passato glorioso è pesante, come lo è riuscire a squarciarne il velo per far posto ad una prospettiva più ampia, ad orizzonti più aperti, meno legati ai fondatori (o fondatrici) e più a Gesù e al Vangelo oggi incarnato. Il Signore entra in questa storia, non in quella di ieri. Invece, oggi le comunità faticano a dare fiducia alle nuove generazioni che hanno una sensibilità diversa. È venuta meno la capacità di accogliere le diverse visioni, di accompagnare percorsi che richiedono flessibilità. Oggi chi entra vuole essere felice nel percorso di conoscenza di Gesù: il carisma è un dono, non un vestito uguale per tutti».
A questo link l'intervista dell'Eco di Bergamo
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