L’eredità del Covid-19 nel Bresciano? Una sanità fragile che deve «ripensarsi»

A due giorni dall’annuncio che aspettavamo da tempo, ovvero la fine della pandemia da Covid-19 come emergenza sanitaria globale, le domande si alternano alle emozioni. E queste ultime si lasciano condizionare dai ricordi, dal dolore, dai lutti che nella nostra provincia molti di noi hanno dovuto affrontare. Un bresciano su due è stato contagiato dal virus e oltre 5.600 sono i morti ufficiali a causa dell’infezione. E se è vero che, come suggeriscono gli psicologi, «il modo migliore per affrontare la situazione dolorosa sia fermarsi e stare in quel dolore: solo così sarà possibile riflettere su ciò che è accaduto, trovargli un significato e andare avanti realmente», è altrettanto vero che per un bresciano su cinque i tre anni di pandemia non solo sono alle spalle dal punto di vista sanitario, ma sono ricordi rimossi.
La rimozione
Questo è emerso anche dal sondaggio che il nostro quotidiano ha commissionato a Ipsos: il 30 per cento degli intervistati è convinto che il virus rappresenti ormai una minaccia limitata, mentre per il 49 per cento non c’è più alcun pericolo. Per dare una prima risposta all’eredità che la pandemia ha lasciato a livello individuale e collettivo, riportiamo ancora le parole pronunciate dal direttore generale dell’Oms, Organizzazione mondiale della Sanità che venerdì scorso ha dichiarato la fine dell’emergenza sanitaria globale sottolineando, contestualmente, che questo «non significa che il Covid sia finito in termini di minaccia alla salute globale».
Gli errori fatti
L’Oms riconosce gli errori fatti: «Una delle maggiori tragedie è che il Covid non doveva andare in questo modo ma, a livello globale, una mancanza di coordinamento, di equità e di solidarietà ha significato che gli strumenti a disposizione non siano stati utilizzati efficacemente come avrebbero potuto e sono state perse vite che non dovevano essere perse. Per questo ora abbiamo un piano pandemico: è un impegno verso le generazioni future a non tornare indietro al vecchio schema di panico e trascuratezza che ha lasciato il mondo vulnerabile, ma andremo avanti con un impegno comune a fare fronte a minacce comuni con una risposta comune». Il Covid «ha cambiato il nostro mondo e ha cambiato noi. Se ritorneremo alle cose come erano prima, avremmo fallito nell’imparare la lezione».
La lezione
Quale lezione? Il professor Francesco Castelli, infettivologo e rettore dell’Università degli Studi di Brescia, in prima linea insieme a tutti i suoi colleghi durante l’emergenza, afferma: «La prima, chiara, lezione che ci ha dato la pandemia è che l’Occidente, con la sua medicina e la sua alta tecnologia, dunque convinto di avere il controllo su tutti gli eventi che potevano verificarsi, non l’ha avuto. È risultato evidente che l’uomo è solo uno dei componenti del delicato equilibrio tra natura, ambiente e animali e, dunque, nel futuro un’altra pandemia può ripresentarsi». In secondo luogo, quello che è accaduto ha evidenziato che «la prevenzione è stata dimenticata e non possiamo più permettere che questo accada».
Tuttavia, «l’umanità ha saputo reagire con eccezionale rapidità - penso ai vaccini e ai farmaci di cui ora disponiamo - e questo ci insegna che dobbiamo avere sempre più fiducia nella scienza». Senza dimenticare «che il mondo è diventato uno e il movimento delle persone è un elemento di ricchezza, ma anche di fragilità». Cosa ci ha insegnato la pandemia? «Che la salute è un diritto fondamentale delle persone e che la sanità deve essere preservata perché ha una forte responsabilità nei confronti della società. Noi medici, infermieri e operatori sanitari tutti ci siamo sentiti responsabili di ogni paziente, e lo siamo sempre, come se fosse un figlio o un genitore».
Il nostro territorio
Le dichiarazioni dell’Oms devono tradursi in insegnamento nei nostri territori, nella nostra regione, nel nostro Paese. Sta accadendo ciò? Si è parlato a lungo, immediatamente dopo la prima ondata del virus che ci ha colti di sorpresa e in pochi giorni si è impossessato delle nostre vite, della necessità di «rafforzare la sanità territoriale». Come? La legge prevede che nella nostra provincia, entro la fine del 2024, siano operativi 26 case di comunità, 7 ospedali di comunità, 11 distretti e altrettante centrali operative. Tutti realizzati con i fondi del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
L’assessore regionale al Welfare, Guido Bertolaso, intervenendo in Consiglio regionale, è stato chiaro: «Il rischio è che queste strutture restino vuote. Oggi molte sono le Case di comunità aperte, ma lavorano al 70% perché mancano medici e infermieri». È un’altra emergenza, da non sottovalutare.
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