Le ucraine a Brescia: «Soffriamo e temiamo per i nostri cari»

Sono otto anni che Olha ha la voce spezzata quando parla della sua casa, della sua città, della sua terra. Lei è una delle poche immigrate ucraine provenienti da Donetsk, l’area del Donbass in cui, insieme a Lugansk, dal 2014 si combatte la guerra separatista portata avanti dai ribelli filorussi e scaturita contemporaneamente all’annessione delle Crimea da parte della Russia. Nelle narici sente ancora il boato delle bombe e l’odore della polvere da sparo.
«Io sono in Italia e la mia famiglia è scappata, ospite di parenti nella zona di Kiev, ad ovest». Quasi lo sussurra, poi sulle parole hanno la meglio le lacrime. Ha comunque il tempo di ricordarci che anche stamattina, domenica, come ogni domenica alle 11 nella chiesa di san Giuseppe nel vicolo omonimo nel cuore di Brescia si celebra la liturgia cattolica di rito bizantino, con preghiere speciali per la pace in Ucraina.
Nel Bresciano quella ucraina è tra le comunità più numerose, composta da circa ottomila persone, per la maggior parte di sesso femminile. La quasi totalità delle immigrate «bresciane» proviene dall’Ucraina occidentale, distante circa seicento chilometri dal teatro di guerra ai confini con la Russia. Tra queste, Ludmilla Alrabid, una giovane signora che vive a Nuvolento e che ha lasciato L’vov (Leopoli) nel 2011. «Sento parlare in modo insistente della minaccia dell’invasione della Ucraina da parte della Russia - racconta Ludmilla -. A parte che la guerriglia si combatte in territorio ucraino, o sbaglio? Quindi, l’invasione c’è già stata. In quanto ai venti di guerra, nel mio Paese di origine stanno soffiando senza sosta da otto anni. Dal 2014 non siamo più in pace, dunque? Siamo in guerra».Ludmilla, poco prima di parlare con noi, ha telefonato ai suoi genitori. «Mia mamma ha detto che la situazione non è bella e tutti sono preparati al peggio - continua -. Io sono andata a trovare i miei genitori a metà gennaio ed ho notato nelle persone una tranquillità quasi innaturale: si sentono pronti a qualsiasi evenienza».

Negli ultimi mesi in tutti i distretti, la conferma giunge da molte «badanti» con le quali abbiamo chiacchierato sul tema, le famiglie sono state addestrate a come salvarsi in caso di attacco aereo, compresa la fuga nei rifugi. «A proposito di fuga - aggiunge Ludmilla - in casa dei miei genitori, ma anche in quelle dei vicini e dei nostri parenti, ho visto appoggiate sul pavimento vicino alle porte molte valigie. Ho chiesto spiegazioni e mi è stato detto che è la "valigia del viaggio", contenente i documenti e poche cose utili, da portare con sé e scappare in caso di bombardamento. Scappare sì, ma dove? Siamo circondati da migliaia e migliaia di soldati, che possibilità abbiamo di fuggire? Sì, certo, i Paesi europei hanno detto che lasceranno le frontiere aperte per accoglierci, ma nessuno di noi in buona salute vuole scappare per fuggire dalla guerra, a meno che non sia già all’estero per lavoro. Stiamo mettendo in salvo i bambini, mandandoli da parenti nella vicina Polonia. Per il resto, se c’è da combattere, si combatte. Anche mio fratello, che da anni vive negli Stati Uniti, in questi giorni è in Ucraina, tornato a trovare i nostri genitori. Ed è pronto a combattere. Siamo così stanchi che, ormai, non abbiamo più nulla da perdere».

Ludmilla vive in provincia di Brescia, ma nel racconto spesso parla di lei come se fosse a Leopoli. «Molti ucraini che vivevano nell’area del Donbass sono stati costretti a scappare ad ovest dove sono stati aiutati dalle famiglie e dalle autorità - aggiunge -; poi ci sono i nostri ragazzi che sono andati a combattere ad Est e non sono più tornati. O sono tornati terribilmente mutilati. Ci sono i padri che sono tornati morti. Ed è angosciante vedere i loro figli bambini che vanno al cimitero con un foglio in mano su cui hanno scritto parole d’amore per il loro papà. Lo posano sulla tomba, come si poserebbe una rosa».
Intanto, lassù, ci si scalda solo con la legna, perché anche il gas russo è parte del teatro di guerra.
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