In una lettera lo sfogo dei detenuti del carcere di Canton Mombello

Sovraffollamento e pessime condizioni di vita: la protesta pacifica presentata da Garante per i diritti e presidente del Consiglio comunale
I DETENUTI SCRIVONO ALLA CITTA'
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«Che mezzi ci restano per chiedere aiuto?». Se lo domandano, in una lunga lettera indirizzata alla cittadinanza, i detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, quegli oltre 300 uomini di varie nazionalità che tra le mura del Nerio Fischione (la capienza regolamentare è di 189) vivono una condizione di sovraffollamento ormai insostenibile.

La denuncia arriva dalla Garante per i diritti dei detenuti, Luisa Ravagnani, e dal presidente del Consiglio comunale, Roberto Cammarata, che hanno raccolto lo sfogo dei carcerati e deciso di diffonderlo. Sciopero del carrello, battitura o sciopero della fame sono le forme di protesta più utilizzate dai carcerati, che hanno però delle conseguenze che gli stessi detenuti vogliono evitare.

Le motivazioni

Lo sciopero del carrello comporta «uno spreco enorme di cibo», visto che «da qui dentro non siamo in grado di donare». La battitura tre volte al giorno sulle sbarre per farsi sentire comporta il rischio di «incrinare i difficili equilibri che a fatica in carcere si riescono a mantenere». E lo sciopero della fame necessita di «un’attivazione massiccia dell’area sanitaria».

I detenuti hanno quindi deciso di sperimentare una nuova forma di protesta che hanno chiamato Mir (Manifestiamo insieme responsabilmente): «Non faremo nulla di irresponsabile qui dentro ma chiediamo fortemente di essere ascoltati e considerati».

Per che cosa? Lo scrivono nella lunga lettera, denunciando i problemi che il grave il sovraffollamento delle carceri italiane comporta.

«I detenuti hanno dimostrato una grande responsabilità decidendo di adottare questa forma di protesta pacifica - ha spiegato la garante Luisa Ravagnani -. C’è però una forte richiesta di aiuto e di ascolto perché non è più possibile continuare con questi numeri sia dei detenuti, sia degli operatori penitenziari e dell’area trattamentale e di chi in carcere ci entra per lavorare e attuare l’obiettivo di rieducazione che la pena dovrebbe avere».

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