Fra' Fiorenzo Priuli: «All’Africa oggi non servono predicatori, ma testimoni»

L'intervista al chirurgo missionario è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo
Fra Fiorenzo Priuli è originario di Cemmo di Capo di Ponte
Fra Fiorenzo Priuli è originario di Cemmo di Capo di Ponte
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Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo (in calce all’intervista trovate il link diretto alla pagina dedicata del quotidiano orobico).

Africa profonda. Africa poverissima. Africa in cui un europeo mai si sognerebbe di andare a vivere. A maggior ragione, mai si sarebbe sognato di farlo oltre mezzo secolo fa, lasciando la sua casa nelle valli bresciane, ai piedi della Concarena, uno dei «monti sacri» della Valcamonica insieme al monte Badile. Fratel Fiorenzo Priuli aveva solo 23 anni nel 1969 quando fece una scelta di fede che rivoluzionò la sua vita. E quella degli africani che ha incontrato sulla sua strada.

Perché missionario?

Quando ero ragazzo nel mio paese, Cemmo di Capo di Ponte in Valcamonica, provincia di Brescia, molti pensavano che sarei diventato frate. Una convinzione che era maturata, evidentemente, dall’esempio della mia famiglia, molto religiosa e osservante e dall’educazione che era stata impartita a noi ragazzi. Io non ci pensavo, ma accettai di entrare in un collegio dei Fatebenefratelli in provincia di Vicenza. Del resto, non avevo alternative, eravamo molto poveri. Quando uscii, in testa avevo un solo progetto: consacrare la vita a Dio e curare le persone povere e malate dell’Africa. Non sono un prete anche se mezzo secolo fa ho pronunciato i voti di povertà, castità, obbedienza e ospitalità sulle orme di San Giovanni di Dio, fondatore dell’Ordine ospedaliero dei Fatebenefratelli.

Cosa ricorda della sua prima Africa?

In Africa sono andato nel 1969, avevo ventitrè anni. Tra gli obiettivi della mia missione, vi era quello di distruggere i feticci, gli oggetti di venerazione religiosa presenti tra le popolazioni indigene. Ricordo che il Concilio Vaticano II era terminato da poco e le sue aperture, i suoi insegnamenti, non si erano ancora diffusi, nemmeno tra le persone consacrate. Se oggi penso a questa pretesa, meglio direi presunzione, mi viene da sorridere alla luce del cammino fatto insieme agli africani. Con i musulmani ci sono sentimenti che vanno al di là della tolleranza e dell’apprezzamento. Penso all’amicizia con il califfo di Kiota, in Niger. Trent’anni fa un loro malato è guarito nel nostro ospedale di Tanguiéta in Benin. Da allora, il marabutto mi manda i suoi pazienti, con una lettera in cui descrive sommariamente i disturbi di cui soffre quella persona e in cui mi conferma che ogni venerdì prega sempre per me in moschea.

Oggi in Africa servono testimoni o predicatori?

Direi proprio che oggi l’Africa ha bisogno di testimoni. Persone, consacrate o laiche, che abbiano grande rispetto e sappiano valorizzare la cultura locale nel segno di quell’ospitalità che è il perno centrale della nostra vita missionaria. Preservare la cultura delle popolazioni con le quali viviamo è il solo modo per riuscire a diffondere la Parola di Dio, la base su cui costruire il tradizionale annuncio del Vangelo. Un annuncio che va di pari passo con le cure tradizionali che si accompagnano a riti e cerimonie religiose di cui bisogna avere grande rispetto. Ho imparato molto da loro e nell’Ospedale di Tanguiéta, spesso, alle terapie d’avanguardia accostiamo le migliori cure tradizionali.

Come si è passati dalla diffidenza alla fiducia?

È servito molto lavoro e molta pazienza prima di ottenere la fiducia della gente. La popolazione seguiva solo lo stregone-guaritore, in forza delle proprie convinzioni religiose feticiste ed era diffidente verso la novità portata dai bianchi. La svolta avvenne tra il 1979 e il 1980, quando una terribile epidemia di morbillo fece morire cinquemila bambini nel giro di pochi mesi. In quell’occasione la gente si accorse che chi veniva in ospedale si salvava, ed allora iniziarono a frequentarlo con regolarità. Oggi vengono davanti alla chiesa ove sorge una cappellina alla Vergine a ringraziare il Dio dei cristiani perché ha mandato i frati tra di loro. 

A questo link l’intervista allo specchio curata da L’Eco di Bergamo >>

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