Beppe Vigasio: «Giocavo solo per passione: così ho vinto uno scudetto»

L'intervista al rugbista camione d'Italia è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo in occasione del 2023
Beppe Vigasio con la maglia del Rugby Brescia l’anno dello scudetto ’74-’75 - Foto d'Archivio  © www.giornaledibrescia.it
Beppe Vigasio con la maglia del Rugby Brescia l’anno dello scudetto ’74-’75 - Foto d'Archivio © www.giornaledibrescia.it
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Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo (in calce all’intervista trovate il link diretto alla pagina dedicata del quotidiano orobico).

«Dal punto di vista dello sport sono stato un ragazzo fortunato - dice Beppe Vigasio - mi sono trovato al posto giusto nel momento opportuno». La sua è una storia particolare: le prime partite ufficiali con la maglia del Rugby Brescia le ha disputate nel 1968, alla soglia dei trent’anni. Poi nella successiva decade è diventato un punto fermo della squadra che nel 1975 è diventata campione d’Italia della palla ovale.

Com’è iniziata l’avventura?

Io, in realtà, avevo cominciato a giocare nelle giovanili già verso la metà anni Cinquanta. All’epoca noi ragazzi squattrinati ci trovavamo allo Chalet in Castello, dove si poteva ascoltare la musica al juke box. C’erano comitive, nascevano rivalità fra bande, si litigava… E siccome in quelle situazioni, benché all’epoca non arrivassi a 75 chili, mi facevo rispettare, Angelo Valseriati e Roberto Bruni-Zani, che già si cimentavano con la palla ovale, mi convinsero ad andare ad allenarmi con loro, al campo Arici, in via Berardo Maggi.

Poi però, non diede seguito a quelle prime apparizioni.

Lavoravo nell’impresa di famiglia, mio padre era mancato che noi figli eravamo ancora giovani, l’attività si stava espandendo, stampavamo disegni e progetti per gli studi professionali e avevamo tra i clienti anche l’OM. Dovetti partire militare. Tornato a casa dopo 17 mesi, avevo altro cui pensare, non avevo tempo per il rugby.

E quando arrivò la folgorazione di ritorno?

Nel 1967: mi ero sposato con Giuliana, il rugby fu il mio regalo di nozze alla sposa. Nel senso che da quel momento in poi, tra sport e lavoro, a casa non c’ero praticamente mai. Tranne quando venivano a cena compagni e giocatori che nella nostra cucina trovavano un porto sicuro, qualunque giorno, a qualunque ora.

Il rugby allora non era professionistico, ma l’anno dello scudetto il Brescia aveva tra le sue file fior di campioni, italiani e stranieri, molti ben pagati. Lei quanto guadagnava come giocatore e come conciliava lo sport con il lavoro?

Dal rugby non ho mai preso una lira, ero fatto così, non pensavo mi spettasse un compenso per giocare. Lavoravo, mi bastava. Mia madre, che per più di mezzo secolo ha mandato avanti l’attività commerciale, aveva però una pretesa rigorosa: che fossi io ad aprire. Nessun altro aveva le chiavi. E certi lunedì mattina, dopo le partite più dure, magari in trasferta, a L’Aquila o a Catania, potete immaginare quanto fosse faticoso e pesante essere lì, zoppo e acciaccato, per l’apertura.

Premi?

Quando vincemmo lo scudetto, a fine stagione i dirigenti mi chiesero come potevano ripagare la mia disponibilità per aver assunto in corsa anche il ruolo di allenatore. Dissi: regalate una pelliccia a mia moglie. E così ebbe un altro regalo...

Lo scudetto fu la consacrazione di una grande avventura. Come festeggiaste?

A torte in faccia da «Banana» in via Codignole. Ne avevamo ordinate 150, poca pasta e tanto tuorlo d’uovo, per renderle appiccicose.

E la città come rispose a quel titolo?

Abitavo in via Barricate, sopra piazzetta Tito Speri, poco più in alto c’era la casa del sindaco di Brescia, Bruno Boni che, il giorno dopo, scendendo per andare in Loggia, mi suonò per farmi i complimenti. Un bel gesto che mi fece piacere. Poi certo ci furono le manifestazioni ufficiali, la consegna della Vittoria Alata. In città ci conoscevano, in negozio tenevo esposta e incorniciata la maglia del Brescia. Ma nessuno di noi diventò mai una celebrità, anche se i giornali in quegli anni scrivano molto di rugby e ci sostenevano». 

Il rugby di oggi e quello ieri.

Il nostro era una vendetta continua... ma cito solo un dato: ho visto la finale del campionato francese con il mio amico Jerome e sua moglie Cariddi, tifosi del Tolosa. La mischia del Brescia dello scudetto pesava circa 720 chili, quella del Tolosa supera i 950. E come se schierassero due giocatori in più...

A questo link l’intervista allo specchio curata da L’Eco di Bergamo >>

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