Fase 2 e tamponi: ancora troppo pochi in Italia e in Lombardia

Lo dicono due distinti studi di Fondazione Gimbe e Cattolica, specie a fronte del numero di contagi
Tamponi per Covid-19 pronti per l’impiego - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Tamponi per Covid-19 pronti per l’impiego - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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Il fatto non è che è bravo il Veneto. Il fatto è che ci sono almeno undici tra Regioni e Province autonome che sul fronte della strategia per la diagnosi del coronavirus sembrano più determinate della Lombardia. Nello specifico, stanno effettuando un numero di tamponi quotidiani (a fini «diagnostici», appunto) ogni 100mila abitanti superiore a quelli messi in campo dalla nostra regione. Che, per inciso, è la più colpita dal virus, con oltre 86mila casi acclarati su 228mila totali.

A scattare la fotografia è la Fondazione Gimbe (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze), che elaborando i dati della Protezione Civile, evidenzia come in Italia, nell’ultimo mese, sono stati effettuati ogni giorno in media 61 tamponi «diagnostici» (cioè non «di controllo» per pazienti Covid-19 già conclamati) per 100mila abitanti. La nostra regione va poco oltre, fermandosi a quota 64. Ben lungi dalla inarrivabile Val d’Aosta (168), alla quale si avvicinano solo la Provincia Autonoma di Trento (156) e il Friuli Venezia Giulia (102). Certo se a guidare la classifica dei territori che maggiormente fanno ricorso alla diagnostica per affrontare l’emergenza è una pattuglia di realtà del nord Italia, subito dopo seguono Basilicata, Umbria, Lazio e Molise. Ecco in ottava posizione il Veneto (83), che ci sopravanza comunque di altri quattro piazzamenti. Fanalino di coda, per la cronaca, è la Puglia, ferma a 18, a fronte tuttavia di una diffusione del virus ben inferiore.

Un quadro pressoché speculare a quello misurato dal report dell’Altems (Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari) dell’Università Cattolica che inquadra il tasso settimanale di nuovi tamponi processati per mille abitanti: tra il 12 e il 19 maggio la Lombardia ne registra 8,26, a metà di una classifica che vede in vetta Trento (28,38), Val d’Aosta (17,89) e Veneto (14,19). Questo a fronte di un’accelerazione di cui dà conto la stessa Fondazione Gimbe, nell’accogliere positivamente un miglioramento generale della attività condotta sul fronte diagnostico, ma ribadendone l’insufficienza in gran parte del Bel Paese.

E per la Lombardia la lettura del rapporto tra tamponi effettuati e casi di Covid-19 riscontrati ogni 100mila abitanti risulta ulteriormente penalizzante: nell’ultimo rapporto settimanale Altems emerge come in termini assoluti in Lombardia è stato sottoposto a esame diagnostico solo il 3,51% della popolazione residente, quando il Veneto è a 5,72% e Friuli e Val d’Aosta ben oltre il 7,5%.

Chiaro, estensione territoriale e numero di abitanti complessivo incidono a fronte di una capacità totale di processazione dei tamponi, ma la Lombardia vanta anche oltre 45 laboratori abilitati. E nei momenti più critici della pandemia è arrivata a processare 99 tamponi diagnostici al giorno per 100mila abitanti. Quindi, le possibilità tecniche non dovrebbero essere il problema. Quanto ai reagenti il nodo potrebbe essere superato con l'annuncio del premier Giuseppe Conte dell'acquisto di 5 milioni di kit da distribuire in tutta Italia.

Difficile da questi numeri desumere l’esatta strategia di Regione Lombardia per la Fase 2 rispetto alla diagnostica (una delle 4 famose «D» lanciate dal governatore Attilio Fontana). Se l’estensione del ricorso ai tamponi c’è stata (+13 al giorno ogni 100mila abitanti negli ultimi 15 giorni), certo le ricadute di numeri così contenuti non sono difficili da prospettare: ad un minor numero di tamponi eseguiti corrisponde inesorabilmente un minor numero di casi accertati. Il che finisce anche col tradursi con un trend della situazione meno allarmante, favorevole a riaperture piuttosto che a impopolari restrizioni. Forse non oziosa come lettura in questo scenario in cui ogni regione fa per sé, se si considera che è anche sulla base dei nuovi casi dichiarati che l’Iss definisce l’«Rt», l’indice di trasmissione, alla luce del quale Roma potrebbe adottare misure differenti per singole regioni. Incluso il Veneto, che alla fine non è neppure il più bravo.

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