Elezioni, l'Italia va alle urne senza un'idea chiara di Europa

La campagna elettorale più anomala della storia repubblicana è finalmente terminata e come c’era da aspettarsi i toni si sono alzati solo nell’ultima settimana, tra accuse di post fascismo e di sudditanza straniera. I partiti hanno presentato i loro programmi senza troppa convinzione: il momento eccezionale che stiamo vivendo con alcune emergenze globali, dalla guerra in Ucraina alla crisi delle materie prime che hanno il sopravvento su tutto il resto, ha influenzato fortemente il dibattito politico. I temi sono quindi talmente macro che le ricette spesso sono simili.
Si è già avuto modo di ragionare in questa rubrica del posizionamento internazionale dei singoli partiti. Argomento stringente ora più che mai con la crescente minaccia russa all’Europa; la conclusione è stata che la politica estera per quanto possa sembrare lontana ha ricadute dirette e indirette sulla vita quotidiana dei cittadini. Non solo, scegliersi gli alleati è ormai fondamentale in uno scenario internazionale sempre più competitivo dal punto di vista politico ma anche economico e commerciale. Ma il campo di scontro tra i partiti resta l’Europa, e lo è stato sempre di più in questi ultimi vent’anni, a partire dalle campagne no euro del centrodestra promosse a suo tempo dalla Lega e in maniera altalenante anche da Berlusconi.
L’Unione europea resta, infatti, croce e delizia della politica italiana: c’è chi la descrive come matrigna, chi come benevola, chi come una struttura senz’anima esclusivamente tecnocratica. Ma l’Europa è stata comunque al centro del confronto e questo è comunque un bene, perché pur essendo terreno di scontro resta l’orizzonte inesorabile, anche se forse sarebbe meglio vederla come una comunità di destino. Ad ogni modo sull’inesorabilità di una prospettiva europea per il momento non sembrano esserci dubbi; in queste settimane in cui anche sul nostro giornale abbiamo sollecitato tutti gli oltre 70 candidati bresciani in lizza per le Politiche a dirci la loro sulla postura italiana in politica estera, solo i rappresentanti di forze politiche numericamente marginali sembrano proporre tout court l’uscita dall’Ue (c’è pure il partito di Paragone che porta questo nome). Ma se il tema dell’Italexit non è più così di moda resta comunque fondamentale capire come le forze politiche hanno intenzione di porsi rispetto a Bruxelles, visto che tra Next Generation Eu, Fit for 55 e tutto il resto ballano miliardi di euro che possono o non possono arrivare in Italia.
Le contraddizioni
Si può cominciare col dire che le due coalizioni principali hanno al loro interno evidenti contraddizioni. Nel centrodestra tre forze appartengono a tre partiti europei differenti: Forza Italia al Partito popolare europeo, Fratelli d’Italia ai Conservatori e riformisti (Ecr), la Lega a Identità e democrazia. In sostanza si va dagli europeisti agli euroscettici ortodossi (con il solo Ppe a sostegno dell’attuale esecutivo europeo). In particolare, grande interesse si concentra sul partito di Giorgia Meloni che oltre ad essere presidente di Fratelli d’Italia è anche presidente europeo dell’Ecr. E in Europa c’è evidentemente qualche preoccupazione per la sua vicinanza con Orban visto che il premier ungherese sta incassando bocciature a ripetizione sulla piega autocratica che sta dando alla democrazia magiara, ma c’è chi confida sul fatto che l’altro partito di peso nell’Ecr è Pis, i polacchi di Kaczynski che a suo tempo votarono addirittura la fiducia alla von der Leyen.
Certo anche a Varsavia ci sono stati problemi con lo Stato di diritto, ma le interlocuzioni con le istituzioni europee sono più semplici di quanto lo siano a Budapest. Ora si tratta di capire se la Meloni da leader della coalizione commetterà l’errore che già è stato fatto dal governo gialloverde di spostare la barra della nostra politica europea su posizioni di Stati comunque «laterali» e di membership Ue recente come Ungheria o Polonia, o se pur con vari distinguo e in una dinamica dialettica cercherà comunque la collaborazione con il «core» dell’Ue, in particolare Francia e Germania.
Le chiavi interpretative sono molto più semplici nel centrosinistra: il Pd è dichiaratamente europeista, Verdi e Sinistra italiana sono per ragioni differenti all’opposizione all’Europarlamento con i primi dialoganti e i secondi più critici. Il terzo polo è macronista, ovvero sia Italia Viva sia Azione appartengono alla famiglia liberaldemocratica di Renew Europe. Infine il Movimento 5 Stelle: ha iniziato l’avventura nell’Ue nel 2014 con i brexiteers di Farage, ha poi provato senza successo ad entrare tra i liberali (si opposero i macronisti dopo che Di Maio era andato a incontrare i leader dei gilets jaunes), è stato respinto dai Verdi (anche se 4 esponenti tra cui la Evi poi sono approdati come singoli eurodeputati) e per ora è tra i non iscritti (una sorta di gruppo misto), insomma una posizione un po’ ambigua.
Le urne domani potrebbero consegnarci un quadro altrettanto complesso, ma che per l’interesse dell’Italia deve essere assolutamente semplificato con rapporti chiari con l’Unione europea.
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