E l’Italia che costruiva il boom tornò a vestirsi «della festa»

Il Dopoguerra aprì le porte alla società dei consumi di massa. Primo approfondimento del progetto «Brescia riparte. 1945-1963»
Il corteo nuziale di Giulia Placidi e Giulio Brioni in via Mulino Vecchio a Borgosatollo, nel 1952 - © www.giornaledibrescia.it
Il corteo nuziale di Giulia Placidi e Giulio Brioni in via Mulino Vecchio a Borgosatollo, nel 1952 - © www.giornaledibrescia.it
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Si apre con questo approfondimento il primo appuntamento di una serie di quattro legata al progetto «Brescia riparte. 1945-1963»

Tema iniziale di indagine è l’abbigliamento che in ogni epoca offre una chiave privilegiata per comprendere la cultura di una società. I nostri vestiti segnano visivamente soprattutto i momenti speciali della vita, tra cui i riti sociali di passaggio, si pensi ai matrimoni e ai funerali. Un’affermazione, questa, che appare evidente negli anni Cinquanta-Sessanta in un Paese, l’Italia, che sta rapidamente cambiando con il cosiddetto «miracolo economico» e che si apre a nuovi consumi prima impensabili per la larga parte della popolazione provata dai lutti, dalle sofferenze e dalle ristrettezze della guerra. La simbologia dell’abbigliamento ci aiuta a capire tratti emergenti del nuovo modo di pensare le varie fasi della vita e la morte.

Per comprendere meglio questi aspetti proviamo a fare un immaginario salto all’indietro nel tempo per ritrovarci sul sagrato di una chiesa addobbata a festa per un matrimonio, proprio di fronte al portale che presto ci svelerà gli sposi. Il rito nuziale possiede da sempre una complessa articolazione: dalla preparazione al ricevimento degli ospiti, dalla cerimonia vera e propria al pranzo seguente, dai regali ricevuti ai fiori, senza dimenticare il viaggio di nozze (allora limitato anche ad un solo giorno, magari già festivo, come il Ferragosto, per non perdere la giornata lavorativa).

Le nozze di Rosa Contrini e Giacomo Tanfoglio a Pezzoro, il 30 settembre 1961 - © www.giornaledibrescia.it
Le nozze di Rosa Contrini e Giacomo Tanfoglio a Pezzoro, il 30 settembre 1961 - © www.giornaledibrescia.it

Come era composto in quegli anni un abito da sposo? Il consorte indossava un abito serio, elegante, scuro (nero, grigio o blu) con cravatta solitamente chiara (grigio argento). Si tratta - precisa la storica Emanuela Scarpellini - di un «elegante vestito da cerimonia, tanto che nelle fotografie di gruppo a volte non è facile distinguere lo sposo al primo colpo». Discorso diverso vale per la sposa, vera protagonista della funzione. Se la lunghezza e la ricchezza di accessori dell’abito (dal pizzo al velo senza dimenticare lo strascico) potevano variare mostrando indirettamente la posizione sociale della famiglia, l’elemento imprescindibile e univoco è il colore bianco. Una scelta cromatica, questa, che rinvia da un lato a valori religiosi, quali la purezza, la verginità e la sacralità, dall’altro lato al consolidamento dell’associazione del colore nero al lutto e alla morte. Il bianco designa la vita. Il bianco e il nero. Una contrapposizione cromatica, quella del bianco-nero, del tutto moderna perché anticamente non sono visti - continua la Scarpellini - come colori contrastanti più di altri. Quello che forse contò di più fu l’invenzione della stampa, che impose l’opposizione cromatica bianco-nero come standard per la comunicazione e anche come dualismo culturale».

Al matrimonio la sposa non indossa gioielli - salvo un filo di perle o un piccolo regalo del fidanzato - in modo da non distogliere l’attenzione dal simbolo centrale, ovvero l’anello della fede, segno di vincolo tra gli sposi e risalente almeno ai romani (quando però era in ferro e non era portato sempre)». Le invitate sfoggiano abiti che sottolineano la femminilità. A tinta unita, a pois o a fiori. La vita è molto stretta. La gonna talvolta è ricca e a pieghe per una silhouette quasi a clessidra. Per altre invitate gli abiti, portati con una cintura, hanno invece una linea più dritta e semplice. Sono abiti che decisamente si allontanano dalle limitazioni della guerra e del Ventennio, quando il regime imponeva l’utilizzo di tessuti autarchici, la scelta di uniformi anche nella vita quotidiana e il risparmio di ogni centimetro di stoffa. Scatti di vita e scatti di morte. La cerimonia nuziale trova spazio in tanti archivi famigliari fotografici.

Un corteo funebre di Marmentino, nella frazione di Ville, sul finire degli anni Cinquanta - © www.giornaledibrescia.it
Un corteo funebre di Marmentino, nella frazione di Ville, sul finire degli anni Cinquanta - © www.giornaledibrescia.it

Meno ricorrenti sono gli scatti legati all’ultimo rito di passaggio: la morte. «Se il matrimonio e la vita vanno esposti, la morte va nascosta, allontanata, separata. È questo un processo culturale che si verifica dal Settecento, quando avviene una scissione tra il mondo dei vivi e quello dei morti: questi ultimi vengono rimossi culturalmente e allontanati fisicamente dalle città in appositi spazi lontani, prima inesistenti, i cimiteri, mentre in precedenza erano sotterrati dentro le chiese o in luoghi vicini». Negli anni ’50-’60 la codificazione sociale attraverso l’abbigliamento continua anche dopo il rito del funerale. Il coniuge sopravvissuto indossa abiti color nero per un periodo di sei mesi (in aggiunta alla vedova: la veletta).

Gli uomini portano una fascia nera al braccio, poi sostituita da un bottone nero all’occhiello o da una striscia di panno sul risvolto della giacca. Seguono altri tre mesi di mezzo lutto in cui sono ammessi altri colori, come il grigio. Alle donne sono concessi anche il viola e talvolta il bianco. I parenti stretti del defunto sono in questo modo vicini al mondo del defunto e facilmente riconoscibili dalla comunità di appartenenza. Alla normalità si ritornerà simbolicamente indossando un vestito nuovo come segno del passaggio da una condizione di vita a un’altra, spesso inteso come atto di purificazione e ricorrente in molte culture».

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