Civile, un giorno al Pronto soccorso: «Chiediamo pazienza»

Poco dopo le tredici in cima alla rampa di accesso al Pronto soccorso dell’Ospedale Civile si è fermata un’auto dalla quale è sceso Paolo. Si tiene una mano stretta al petto. L’aveva appena schiacciata. Sul viso, smorfie di dolore. Per la radiografia non ha dovuto attendere molto, ma a metà pomeriggio era ancora seduto nel corridoio dei «codici minori», in un’area anche fisicamente distante dal corpo centrale del Pronto soccorso.
L’attesa
Poco più in là, c’è Roberto. Da quattro ore sta aspettando la visita medica, anche se è già stato sottoposto a prelievo del sangue per un primo controllo. Nella fase iniziale di smistamento (il famoso triage durante il quale viene attribuito da un infermiere il codice colore in base all’urgenza del problema di salute) Roberto è stato valutato come «verde basso». «Sono venuto qui perché sono depresso» afferma, prima di chiudersi in un silenzio difficilmente scalfibile.
Lucia, invece, è arrivata con un forte mal di testa. In attesa di essere valutata, le è stata proposta una terapia analgesica per farla stare meglio. Lei si è arrabbiata: «Una pastiglia potevo prenderla anche a casa, voglio un medico». Paolo, Roberto, Lucia sono tra le diciotto persone che a metà pomeriggio di ieri erano in attesa o di essere visitate o di conoscere il risultato degli esami. Situazioni che si ripetono sessantamila volte, tanti sono gli accessi in un anno. Come si ripetono, uguali e differenti, le ansie e le paure, le lamentele e la riconoscenza infinita.
Dopo le venti
Nell’ala del vecchio blocco operatorio del Satellite, nella zona del pronto soccorso dedicata ai casi meno urgenti, dalle otto del mattino alle otto della sera lavorano un medico e degli infermieri dedicati. Dopo le otto di sera, i codici verdi rimasti vengono «gestiti» dall’équipe che si occupa anche dei casi più urgenti, ovvero i rossi e gialli e che lavora negli spazi che si trovano a destra subito dopo l’ingresso dalla rampa di accesso al Pronto soccorso.
I tempi di attesa per i meno urgenti dopo le otto di sera, dunque, potrebbero ulteriormente dilatarsi perché i codici più alti hanno la precedenza e richiedono anche più tempo di cura e il rischio di tensioni aumenta. Il tempo. Medici e infermieri che dedicano dodici ore di lavoro ai codici bassi; per ventiquattro ore, invece, sono presenti nell’area dell’alta intensità e del Covid.

«Come clinico devo identificare l’urgenza e trattarla rapidamente senza perdere tempo, rosicchiando ogni minuto perché per ogni minuto perso il rischio di perdere una vita aumenta - spiega Cristiano Perani, da sei mesi direttore facente funzione del Pronto soccorso del Civile, entusiasmo da vendere -. Tuttavia, noi siamo un approdo sicuro per tutti quelli che hanno un problema di urgenza. Che, per i pazienti, tale è se così la percepiscono.
Arrivano da noi perché non trovano approdo da altre parti. Non è nostro compito dare lezioni di educazione civica, spiegando che per alcuni problemi di salute sarebbe più opportuno rivolgersi al medico curante. Se non altro, aspetterebbero molto meno. Difficile, per chi arriva al Pronto soccorso, capire che gravità e urgenza sono due cose differenti: nessuno vuole sminuire il dramma personale, ma se una persona si presenta con un nodulo al seno, per noi può attendere. Comprendiamo l’ansia, ma non è urgenza». Una carezza. Basterebbe un abbraccio, anche solo con gli occhi ridenti. Una parola di conforto.
Un sorriso
Chi lavora in pronto soccorso, però, «deve rosicchiare ogni minuto». Non c’è tempo per accogliere e tranquilizzare tutti. Per questo la presenza di uno e più volontari - ne parliamo in questa pagina - diventa fondamentale per stemperare gli eccessi, per ascoltare i fiumi di parole, per prendersi cura anche della fragilità emotiva di chi sta aspettando da ore e ritiene, spesso a ragione, che le ore di attesa siano decisamente troppe.
Anche se in molti casi l’attesa è «abitata» dall’osservazione per terapie in corso, del resto il tempo trascorso in pronto soccorso è equiparato ad un ricovero ospedaliero.
Medici e infermieri
«Il sistema è flessibile e sono i medici a decidere, in base alle evidenze cliniche, la priorità da dare alle persone da visitare - continua Perani -. Se si registra una particolare congestione nell’area dell’alta intensità, è evidente che chi è meno urgente deve aspettare. Non possiamo garantire la stessa efficacia su due binari diversi.
Ci sono alcuni infermieri, chiamati "di flusso", che ascoltano i pazienti e tengono conto di quello che viene loro riferito, cercando di far capire che è impossibile garantire a tutti di essere presi in carico allo stesso modo e nello stesso momento. Innanzitutto, perché non disponiamo di un numero così elevato di medici ed infermieri; poi, perché ogni paziente ha esigenze cliniche differenti che richiedono anche la consulenza specialistica di medici che lavorano nei reparti».
Forte è anche la frustrazione tra il personale, spesso vittima di aggressioni. La violenza verbale verso le donne - lo sono sette infermiere su dieci - è pratica quasi quotidiana da parte di pazienti sempre più aggressivi. Di più: ieri un giovane intossicato ha sferrato un pugno proprio all’infermiera che si stava prendendo cura di lui.SanitàLa frontiera dell’accoglienza
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