Bimbo abbandonato dalla madre: capire e non giudicare

Il recente caso di cronaca a Brescia solleva molte questioni su cui è necessario riflettere
Il momento del ritrovamento del bimbo in San Faustino - © www.giornaledibrescia.it
Il momento del ritrovamento del bimbo in San Faustino - © www.giornaledibrescia.it
AA

La donna ha portato via il suo neonato dalla Francia, una decina di giorni dopo il parto, chissà in preda a quale disagio sociale e con quale vissuto emotivo. E poi, in un vicolo del centro di Brescia ha atteso nascosta che qualcuno vedesse e si occupasse del suo bambino.

Si tratta di una situazione di disperazione, ma anche di scarsa conoscenza delle opportunità offerte dalla legge e dai servizi. Quasi certamente non era al corrente della legge a tutela della «donna che non consente di essere nominata» e nulla sapeva della Culla termica degli Spedali Civili. Ed è proprio per questo che una donna, senza strumenti e senza aiuto, può arrivare a credere di non farcela.

Dopo un mese però è tornata a cercare il suo bambino, si è amaramente pentita di quel gesto, dell’abbandono. Non dimentichiamo che se fosse stata una mamma senza desiderio di allattare, di tenere in braccio il bimbo, di lavarlo, ma con l’opportuna assistenza, forse le avrebbero somministrato farmaci e nessuno conoscerebbe questa storia; sarebbe solo una delle tante donne distrutte dalla depressione post-partum e dal senso di colpa, in una società che non forma le persone per scegliere consapevolmente di divenire genitori.

Pare che la protagonista di questa triste storia un anno fa sia stata seguita dai Servizi sociali, dopo aver subito uno sfratto. E probabilmente si è dovuta confrontare anche con un matrimonio basato forse su una relazione non positiva e utile al sostegno. Così la donna sola, con 5 bambini, era forse prima rientrata in Marocco e poi, prima di tornare a Brescia, si era recata in Francia. Le realtà è che non conosciamo ciò che è davvero accaduto. A questo punto, però, l’opinione pubblica potrebbe interrogarsi sulla storia, sulle conseguenze e sul trauma che vivrebbero sei bambini senza la madre.

Giudicare e schierarsi è più semplice. Se abbiamo pochi dati e comuni etichette è ancor più facile. Personalmente credo che per valutare la situazione dovremmo conoscere anche la storia non solo della protagonista del fatto, ma anche dei suoi bambini: sono stati curati, nutriti, portati in luoghi più sicuri o maltrattati? La donna aveva precedentemente chiesto aiuto ai Servizi sociali? Come si occuperà la società di questi sei bambini, di queste sette vite?

Nelle depressioni post-partum noi cittadini italiani socialmente inseriti, di media cultura e status economico possiamo ricorrere all’aiuto della famiglia, degli psicofarmaci talvolta somministrati dal proprio Medico di famiglia, possiamo in sostanza lavare i panni sporchi in casa. Ma questo non è possibile a tutti, come il caso specifico dimostra. Tra le etimologie della parola abbandono troviamo: dare a balia, rinunziare. L’esposizione e abbandono del neonato, diffusa fin da tempi molto antichi e oggi culturalmente in disuso, consisteva nel depositare la piccola creatura sulla pubblica via, di solito davanti a una Chiesa, a un Convento o in un luogo abitato perché fosse raccolto e quindi accolto, allevato dalla pubblica o privata assistenza. Conosciamo le mamme di latte e dall’antica Grecia alla nobiltà di inizi novecento, si trovano numerosi riferimenti, in tutte le culture e paesi, fino all’invenzione commerciale del latte in polvere.

Nel diritto islamico la parentela di latte è parificata con quella di sangue. Spesso emigrando le donne magrebine sperimentano per la prima volta il distacco dalla comunità familiare e dal controllo maschile. Vivono conflittualmente questa condizione perché da un lato vorrebbero godere della maggiore libertà ma dall’altro non sono educate alla libertà. La mancanza di una rete familiare di supporto si fa sentire e si traduce in un disperato senso di solitudine. E le donne di ogni luogo possono comprendere questo disagio.

Dal punto di vista psicologico la paura e l’isolamento relazionale non lasciano spazio a strategie: subiamo i pensieri più distruttivi. Spesso il giudizio, le nostre etichette mentali, i nostri principi morali (che crediamo oggettivi, universali) divengono una scusa per non interrogarsi. Per tutti noi è più facile giudicare un problema che risolverlo o anche solo comprenderlo, abbracciarlo. Difficile è sospendere il giudizio, ammettere la propria ignoranza, ascoltare con il cuore. Non conosciamo questa donna e non abbiamo vissuto la sua esperienza. Ogni persona è diversa, ogni storia è nuova. Cosa sentiva? Forse rabbia e paura, forse solo desiderio di protezione?

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia