Arruolava e inviava mercenari in Donbass: «Maledetto il giorno che l’ho incontrata»

In aula uno dei tre uomini che la 66enne di Gussago avrebbe assoldato nel 2015 per la guerra in Ucraina
Nel Donbass la guerra prosegue dal 2014
Nel Donbass la guerra prosegue dal 2014
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Una signora della guerra, capace di inviare mercenari preparati sugli scenari di conflitto più pericolosi? Una millantatrice che propone missioni impossibili a improbabili miliziani? O l’una e l’altra a seconda delle contingenze? Chi è Romana Mengaziol? Vuole saperlo anche la Corte d’assise presieduta da Cristina Amalia Ardenghi che sta processando per arruolamento con finalità terroristiche la 66enne di casa a Gussago, fino a qualche anno fa titolare di aziende di diritto britannico nell’ambito della sicurezza internazionale.

Secondo il sostituto procuratore Erica Battaglia, titolare del fascicolo aperto nei suoi confronti, l’identikit corretto è il primo. Mengaziol, per il pm, nel febbraio del 2015 arruolò e inviò nel Donbass (nell'est dell'Ucraina, teatro già allora di guerra tra Ucraina e Russia) tre uomini italiani. Il rocambolesco fallimento della missione - segnato da visti scaduti, dal fermo in frontiera dei presunti contractor, ma anche dalla necessità di collette per acquistare biglietti di pullman e aereo per tornare in Italia - per l’accusa nulla tolgono alla capacità della donna di muoversi sul fronte bellico e di mettere d’accordo domanda e offerta di guerra.

Le indagini

Di lei, ieri in aula, hanno parlato l’ex dirigente della Digos di Brescia Antonio Rainone, l’agente Davide Gilberti, ma anche uno dei tre presunti mercenari, Luigi Sandoni. Rainone ha ricordato che Mengaziol, oltre a figurare in mimetica sul Facebook, si attribuiva esperienza nel settore della sicurezza internazionale e sosteneva di aver fatto corsi militari in Svizzera. «È risultata estranea ai servizi segreti italiani - ha detto Rainone - ma era legata ad ex appartenenti delle forze dell’ordine. Era anche comparsa negli elenchi dei sostenitori dello Stato Antartico di San Giorgio (autoproclamato stato teocratico finito a processo insieme ai suoi promotori, ndr). A quanto risulta era in contatto con un mercenario in Donbass, che doveva mettersi in contatto con i tre mandati dall’Italia».

Sul pc della donna, nelle sue email e chat di whatsApp, ha messo mani e occhi l’agente Gilberti. «Abbiamo trovato traccia di curriculum con i quali suoi aspiranti collaboratori si dicono capaci di utilizzare Kalashnikov, M16, Beretta 92. Che sostengono di aver sostenuto corsi di assistenza medica sul fronte. Abbiamo trovato anche email nelle quali lei chiede all’interlocutore se è interessato ad operare tra Russia e Ucraina, dove ha contatti con il governo e con quattro operatori del battaglione italiano». A quei quattro, per la Procura, avrebbero dovuto aggiungersene altri tre. Ma all’appuntamento con il «gancio» in Donbass, tale Andrea (?) Palmeri, non si presenta nessuno. «Si creò il problema del viaggio del rientro - ha spiegato Gilberti - Mengaziol chiamò il suo contatto e gli chiese di ricaricare di 200 euro la Poste Pay di uno dei tre».

Uno degli uomini mandati in Ucraina

«Maledetto il giorno che l’ho incontrata - ha raccontato Luigi Sandoni, uno dei tre uomini inviati a Rostov a febbraio del 2015 - quanto mai ho conosciuto la Mengaziol. Avevo bisogno di lavorare, ci trovammo attraverso LinkedIn, mi propose un incarico nel settore della logistica. Arrivammo a Rostov dopo lo scalo a Mosca, prendemmo un taxi e ci trasferimmo nel Donetsk. Dovevamo incontrare una persona, che avrebbe dovuto farci vedere un magazzino per lo stoccaggio delle merci. Scoprii giorni dopo - ha proseguito Sandoni, ammonito più volte dal presidente sull’obbligo di dire la verità - che quella persona era tale Palmeri, conosciuto come il Generalissimo. Sembrava drogato, picchiò una donna sotto i nostri occhi. Non l’avevo mai visto prima e non l’ho più visto. Dopo quella scena ho girato i tacchi e me ne sono andato. Avevamo il visto scaduto, così ci hanno fermato in frontiera, dove siamo rimasti 10 giorni, prima dell’intervento di un ambasciatore italiano. Non solo non sono stato pagato per quell’operazione. Ma mia moglie ha dovuto pure vendere un anello per farmi rientrare in Italia».

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