Antichi Ronchi della Maddalena: la memoria della Brescia che fu

«Ronchi» si potrebbe intitolare il viaggio fotografico proposto all’interno della mostra curata dalla Fondazione Negri di Brescia e allestita nel chiostro della parrocchia di San Gottardo. Un elogio alle colline che «proteggono Brescia a oriente e la ingentiliscono».
«Li sentiamo talmente nostri, i Ronchi – scriveva su «AB» nel 1990 Gabriella Motta Massussi – da farci credere bresciano anche il loro nome, che invece è un comunissimo toponimo usato in quasi tutta l’Italia settentrionale e centrale. Viene dal latino medievale arruncare», cioè «dissodare, mettere a coltura un terreno collinare».
Sin dalle rappresentazioni cartografiche del XV e XVI secolo i Ronchi sono abitati. Sono puntellati da edifici vuoi religiosi (conventi, oratori, cappelle), vuoi privati, vuoi militari. Una densità abitativa che aumenta specie nel corso del XIX secolo. Pochi sono gli edifici signorili. Predominano edifici privati più modesti. Tra la Pusterla e la Bornata, a metà Ottocento, ne sono censiti cento. La stessa cifra trova conferma anche sul versante occidentale. Sono – annota la Massussi – «piccole seconde case (case di villeggiatura sono dichiarate in catasto)», «affiancate da edifici rurali, affidati in colonia ai roncari». Si tratta raramente di piccoli affittuali, per lo più sono mezzadri. Curioso come, nei contratti agrari degli anni Venti, fosse contemplata per loro una categoria specifica, quella dei «mezzadri-roncari».
Si può indugiare su queste differenti tipologie abitative dei Ronchi, cogliendone i suggestivi dettagli architettonici, grazie agli scatti esposti in mostra. Si scoprono così, ad esempio, resti di antiche strutture religiose sul retro della Cascina Margherita o in Val Tavareda.

L’epopea dei «roncari»
Per decenni i Ronchi sono stati soprattutto una «sorta di repubblica agreste» ricca di primizie degli orti: «piselli e tenera insalatina ai primi tepori, frutta e vino più tardi», ricordava Sandro Minelli. La battuta «Sono dei Ronchi!», gridata dalle fruttaiole nei mercati di città, era garanzia di seducenti primizie. In primavera i «roncari» calavano in centro con gerle «rigurgitanti di fresche verdure».
Nei giorni di festa «imbevuti di sole», i «roncari» – i cui volti segnati dalla fatica e da un’antica etica del lavoro ci guardano dagli scatti dello Studio Fotografico Negri – accoglievano le comitive di bresciani che, annotava Minelli, «salivano lassù a piedi col pretesto di far merenda con uova sode, salsicce, insalata e vinello sincero. Tipicamente suggestive erano le tappe degli itinerari tradizionali: Casinetto svizzero, Tomba del cane, il Garibaldi, il Rosso dell’olio, il San Gottardo, la Margherita e infine la Maddalena».

Secondo i dati di un’inchiesta condotta da Vittorio Brunoni nel 1974 per il nostro giornale, nell’immediato secondo dopoguerra i «roncari» sono più di cento. Trent’anni dopo, nel 1974, i «roncari» sono scomparsi o quasi. Ne sono rimasti soltanto tre a possedere la licenza di coltivatori diretti e tutti in età avanzata (Spöla ai Medaglioni, Papetti sul Fondo Lutri, Ragnoli alla Margherita). Prevalgono i professionisti dalla metà degli anni Sessanta e i Ronchi, complice lo sviluppo delle infrastrutture, si trasformano progressivamente in zona residenziale. Si tratta di un territorio molto vasto. È interamente sotto la parrocchia di San Gottardo, composta da ben 230 ettari e sei chiese, accudite negli anni Settanta, soltanto da donne: ben sei sacrestane erano in servizio.
Questo «elogio ai Ronchi» non poteva che celebrarsi proprio nella chiesa di San Gottardo, fedele guardiana della fede e delle colline bresciane: non poeti a scriverlo (come fece nel biennio 1865-1867 il giudice-poeta bresciano Antonio Gazzoletti), ma fotografi, i fotografi Negri.
@Buongiorno Brescia
La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
