Allarme cyberbullismo, in aumento i casi nelle scuole bresciane: «Social strumento d’odio»
La legge che lo contrasta c’è. «Ma i ragazzi non se ne rendono conto, prendono tutto come un gioco. E questo è quello che preoccupa» racconta Cesare Marini, esperto informatico e consulente per la Procura di Brescia. Dal 2010 entra nelle scuole - l’ultima volta giovedì scorso a Desenzano - per parlare di cyberbullismo.
Per spiegare che oggi è un reato. «È la vera piaga tra i giovani. Con internet il fenomeno del bullismo, che c’è sempre stato tra ragazzini, si è amplificato. E le vittime subiscono la situazione di disagio molto più di un tempo» spiega Marini.
Sempre più casi
«Dai dati che abbiamo possiamo tranquillamente dire che si registrano più di due episodi a settimana nelle scuole bresciane. È un’emergenza già a partire dalle scuole medie e lo dimostra il fatto che abbiamo l’agenda piena fino al termine dell’anno scolastico. I presidi e le famiglie chiedono incontri con l’esperto perché avvertono il problema, ma faticano ad arginarlo». I casi, quelli più gravi, finiscono sul tavolo della Polizia postale e della Procura, ordinaria e minorile, altri invece si risolvono prima della denuncia alle forze dell’ordine, attraverso il dialogo tra scuola-famiglia - vittima e bulli.
L’esempio è la vicenda della 13enne della provincia che era addirittura arrivata ad avere il terrore di andare a scuola. Come racconta la madre nella lettera aperta scritta al nostro giornale per, da un parte denunciare e confermare l’emergenza bullismo e cyberbullismo, e dall’altra per testimoniare che con il dialogo si può bloccare la catena di insulti che pareva senza fine.
Chi bullizza lo fa soprattutto utilizzando profili social fake creati solo con l’intento di fare male. «I ragazzini ormai si muovono così. È capitato in una scuola durante uno degli incontri che una ragazza ammettesse candidamente di avere 6-7 profili. Uno vero, personale che usava per navigare, e gli altri - dice Marini -per sfottere e fare scherzi».
Dove e come
I canali utilizzati sono quelli classici. «Tik-Tok, Instagram oltre a Whatsapp. Perché il bullismo passa dai social che usano tutti, non da quelli di nicchia perché altrimenti lo scopo del bullizzante viene meno. La vittima però non ne esce più. Perché - argomenta l’esperto informatico - se il bullismo reale può portare ad una reazione, quello virtuale non si ferma mai. Se uno prende in giro un ragazzino che ha davanti, se questo scoppia a piangere, chi insulta può fermarsi, ma senza la vittima fisicamente presente, il tunnel diventa infinito».
E non si pensi che dietro ad un monitor ci sia sempre il giovane spavaldo e arrogante. «In un caso molto grave di qualche tempo fa- ricorda Marini - siamo dovuti intervenire con i carabinieri e siamo andati a casa di un ragazzino convinti di trovare chissà quale strafottente. Era invece il migliore della classe, educato, bravo in famiglia ma che si trasformava diventando un leone da tastiera con un’aggressività spaventosa».
Ma è soprattutto a scuola che i casi di cyberbullismo vengono affrontati. Avviene quando il ragazzino che subisce si rivolge ormai stravolto ai genitori, i quali avvertono i docenti e si innesca così un percorso che, spesso, si conclude con gli incontri collettivi con studenti, genitori e insegnanti.
«La prima lezione l’ho tenuta da solo nel 2010. Me l’aveva chiesto un insegnate amico perché nella sua classe si era verificata una situazione decisamente grave. Poi da anni ormai mi accompagna un pm della Procura che si occupa di soggetti deboli. Questi appuntamenti - è il pensiero dell’esperto informatico - servono perché i ragazzi si rendono conto che gli atti di bullismo e cyberbullismo non solo sono sbagliati, ma anche perseguibili dalla legge. E - conclude - guai a pensare che i social garantiscano anonimato. Durante le indagini emergono nomi e numeri di telefono e il bullo viene scoperto».
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