A Roma il ricordo di Mino Martinazzoli a dieci anni dalla morte

Maria Elena Boschi, Corsini e gli esponenti della Dc Follini e Loiero ieri a Roma al convegno del decennale dalla morte
Mino Martinazzoli alle celebrazioni del 25 aprile nel 2009 in piazza Loggia - © www.giornaledibrescia.it
Mino Martinazzoli alle celebrazioni del 25 aprile nel 2009 in piazza Loggia - © www.giornaledibrescia.it
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L’alfiere di una politica ancorata alla Costituzione, mite e lenta perché riteneva che l’importante non è decidere in fretta, ma bene. Un convinto sostenitore del ruolo dei partiti come espressione di tradizioni storiche e popolari, guidati da leader e non da capi. Un realista animato però da un grande senso di speranza verso le nuove generazioni, a cui affidare il seme che aveva conservato della Democrazia cristiana per farlo fruttare. Un solitario per indole, al quale la Dc affidò l’impresa (quasi) impossibile di riformarsi, in realtà ostacolandolo.

Sono alcuni dei tratti di Mino Martinazzoli, delineati ieri a Roma nel convegno ospitato nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera. Quattrocento presenti, molti bresciani, convenuti per la presentazione del libro «Il cambiamento impossibile. Biografia di un strano democristiano», scritto da Martinazzoli con Annachiara Valle, evento promosso da Italia Viva con l’Associazione culturale Aldo Moro-Mino Martinazzoli di Castenedolo, presieduta da Gianbattista Groli. Una riedizione del volume, uscito 12 anni fa, per il decennale dalla morte del politico bresciano, rievocato da Maria Elena Boschi (capogruppo di Italia Viva alla Camera), da Paolo Corsini, dai compagni di viaggio politico nella Dc Pierluigi Castagnetti, Marco Follini e Agazio Loiero.

«Per questione anagrafiche non l’ho conosciuto, ma ho imparato ad apprezzarlo dai suoi scritti», esordisce Boschi. «La cosa che mi ha colpita di più è il suo atteggiamento spesso ironico verso la politica, il suo volerla umanizzare». Un tratto rintracciabile anche nelle «parole che ha scelto nella sua biografia, mai aggressive nei confronti degli avversari politici». Di Martinazzoli, Boschi sottolinea il «suo progetto temperato e centrale nella scena politica, che ritorna». Un riferimento alla stessa Italia Viva renziana.

In platea. Quattrocento ad assistere al convegno nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera a Roma
In platea. Quattrocento ad assistere al convegno nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera a Roma

Corsini, invece, si sofferma sulla «inattualità di Martinazzoli, che vale come un sanzione per noi». Credeva nella mediazione e nella moderazione, nella rappresentanza esercitata da partiti radicati nel popolo: non proprio elementi dell’oggi. «Era il politico della argomentazione, oggi conta la rappresentazione», aggiunge. «Era il politico del progetto, oggi prevale l’istante; il fautore di una politica fondata sulla tradizione storica, oggi i partiti sono senza memoria».Parole chiave dell’esperienza di Martinazzoli, dice, sono «la politica intesa come rispetto della minoranza contro gli abusi della maggioranza, la centralità della persona, la speranza cristiana». Per Martinazzoli, prosegue Corsini, «la democrazia è partecipazione, sentimento della responsabilità, risposta alla chiamata».

Marco Follini trova una nuova definizione per tracciare il carattere e lo spirito del protagonista: «Era un grande, nobile, hidalgo perplesso». Martinazzoli è stato l’ultimo segretario della Dc (ottobre 1992) e il fondatore del Partito popolare (gennaio 1994). «Nell’ultima fase - commenta Follini - c’erano due stati d’animo nella Dc. Si opponevano i padroni dell’eternità del partito e quelli della sua precarietà. Al campione della precarietà, Martinazzoli, fu affidato il compito di realizzare la sua eternità». Una contraddizione irrisolta. In ogni caso, «chi è stato democristiano deve gratitudine a Mino per quegli ultimi passaggi». Due gli insegnamenti di Martinazzoli che Follini sottolinea: «Il valore della politica non sta nel suo trionfo, ma nell’attraversamento delle difficoltà». L’altra: «La vita è più importante della politica».

Dopo l’omicidio Moro, nel 1978, ricorda Agazio Loiero, «si era convinti che Martinazzoli dovesse diventare il leader, ma l’oligarchia del partito lo tenne come riserva. Ci arrivò solo nell’ottobre 1992 perché la sua personalità, la sua cultura, la sua visione facevano paura ai potenti del partito. Le provò tutte per cambiare, ma il corpaccione del partito non lo aiutò». Martinazzoli rimase fermo nei suoi principi. «Quando incontrò Silvio Berlusconi - ricorda Annachiara Valle - questi gli chiese perché non potevano fare politica insieme. La risposta fu: Perché io la faccio per il bene degli italiani, lei per i suoi interessi».

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