«A Brescia il coronavirus non torna dove è già passato»

Dove ci si contagia di più? A scuola, sui treni, al cinema, in palestra, al ristorante? O negli altri luoghi sottoposti a restrizioni con l’ultimo provvedimento del presidente del Consiglio dei ministri? «Capire la catena di trasmissione virale è molto difficile. Un esempio: se un bambino è positivo, potrebbe essere stato contagiato in casa da un familiare asintomatico, ma anche da un compagno di classe o su un mezzo di trasporto. Come si fa a sapere con esattezza?». A spiegarlo è Michele Magoni, epidemiologo dell’Ats Brescia, con il quale cerchiamo di capire perché, nella seconda ondata, Brescia sostanzialmente tiene anche se non siamo a contagi zero.
Due sono le situazioni da osservare. Una - è evidente con la lettura delle cartine di Ats Brescia pubblicate qui di seguito - riguarda i Comuni bresciani. Quelli in cui maggiore è stata l’incidenza di soggetti positivi nel periodo febbraio-luglio scorso (la proporzione di persone che ogni 100 mila abitanti viene colpita dall’infezione in un determinato periodo di tempo) sono gli stessi in cui nella seconda fase (dal 26 settembre al 25 ottobre 2020) i numeri dei positivi sono molto contenuti.
L’altra è il diverso andamento del virus tra Brescia e la zona orientale della Regione, includendo anche il Lodigiano e l’area di Milano, Brianza e Varese dove la situazione sta esplodendo. «Perché le zone più colpite ora lo sono meno? Intanto, credo che chi ha vissuto quelle settimane di dolore e di lutti, difficilmente può dimenticare e, per questo, osserva con maggior attenzione le indicazioni per prevenire il contagio - spiega Magoni -. L’immunità acquisita non sembra aver raggiunto livelli così elevati, quindi, ad ora, non è un elemento di contenimento della diffusione del virus. Un altro fattore, che spiegherebbe perché qualcuno si ammala ed altri no, è legato alla suscettibilità di ciascuno alla malattia».
Accade, infatti, che in una stessa famiglia ci siano persone positive, o addirittura con il Covid-19 e gli altri componenti, pur non avendo osservato alcuna precauzione, non si ammalano. Le ragioni? Anche nelle infezioni i fattori genetici giocano un ruolo molto importante: il passaggio da infezione a malattia e il modo stesso di manifestarsi non dipende dalla virulenza dell’agente infettivo, ma anche dal modo di reagire del soggetto. Tra cento persone ammalate, ci sarà chi avrà più febbre e chi meno, chi una ripercussione generale maggiore e chi minore, chi particolari segni e sintomi e chi determinate complicanze. Il top è l’isolamento.
L’aumento esponenziale dei contagi in altre aree della nostra Regione, tuttavia, non si può imputare solo al comportamento dei singoli. «La vera arma di prevenzione è il lockdown totale. Che è stato istituito il 9 marzo, quando il virus si era già pesantemente diffuso nella nostra area geografica e stava contagiando Milano e provincia. Il lockdown lo ha congelato. «L’isolamento congela la situazione, non la eradica. Non consente all’infezione di diffondersi a macchia d’olio con le pesanti conseguenze anche sul sistema sanitario - continua -. Perché fare il lockdown? Perché permette di contenere il virus per un lasso di tempo, prima che riesploda, durante il quale ci si dovrebbe preparare ad arginare le conseguenze dell’ondata successiva. Insomma, si ritarda l’inevitabile».
Quale arma abbiamo a disposizione per mandare il virus sotto la soglia di pericolosità? «Al momento, l’unica vera arma disponibile è il lockdown, almeno fino a quando non ci saranno terapie mirate per curare il Covid-19 e, magari, farla diventare una malattia cronica come è accaduto con altre infezioni, tra cui l’Hiv - afferma Magoni -. La vita è un rischio e non possiamo fermarla per paura di morire. Siamo sempre vissuti con malattie infettive, si tratta di trovare un equilibrio. Non vivere alcuni aspetti sociali - il primo giorno di scuola o la maturità, per fare solo alcuni esempi - equivale a perdere anni di vita. Ricordo che uno dei principi che si insegna per primo alla facoltà di medicina è «primum non nocere», ovvero «per prima cosa non nuocere». Bisogna dunque tener conto dei costi e benefici di quello che si decide perché del benessere psico-sociale fa parte anche quello economico. Non siamo in una dittatura sanitaria: vogliamo essere sani per vivere meglio, non vivere per essere sani. Le scelte devono essere coerenti ed equilibrate».
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