Ambiente

Cosa resta del referendum sull'acqua del 2011, dieci anni dopo

Secondo chi ci credeva non c'è niente da festeggiare. Anzi, dice, è come se quel «sì» non fosse mai esistito
Un voto al referendum consultivo bresciano sul servizio idrico integrato nel 2018 - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Un voto al referendum consultivo bresciano sul servizio idrico integrato nel 2018 - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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Chi ci aveva creduto e ci crede ancora lo dice con un velo di risentimento: quello che si celebra oggi non è di certo un anniversario di cui andare fieri, né tantomeno da celebrare. Semmai, è la certificazione di un tradimento: dieci anni dopo il referendum del 2011 l’acqua non è ancora un bene comune. Eppure quel 12 e quel 13 giugno a Brescia, come nel resto del Paese, il verdetto è stato espresso senza sfocature: il «sì» a una gestione non privatistica del servizio idrico, infatti, ha risuonato nella nostra provincia per ben 458.940 volte, sancendo così il volere del 93,95% della platea votante (l’affluenza nella nostra provincia fu del 54,54%).

Perché, dunque, la delusione dei movimenti per l’acqua pubblica? Perché dieci anni dopo, dal punto di vista normativo e concreto, è come se quel referendum non fosse mai esistito.

Com’era andata nel 2011

Il corteo indetto il 26 marzo 2011 a Roma dal Comitato per l'Acqua bene comune per manifestare contro il ritorno al nucleare e la privatizzazione dell'acqua - Foto Ansa  © www.giornaledibrescia.it
Il corteo indetto il 26 marzo 2011 a Roma dal Comitato per l'Acqua bene comune per manifestare contro il ritorno al nucleare e la privatizzazione dell'acqua - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

Il 12 e 13 giugno 2011 ventisette milioni di italiani votarono Sì a due referendum abrogativi a favore di quello che all’epoca i promotori, cioè i membri del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua Pubblica, avevano chiamato «l’acqua come bene comune». I due quesiti facevano parte di un’operazione di voto che coinvolgeva quattro referendum abrogativi (gli altri erano stati proposti dall’Italia dei Valori): oltre all’acqua si votava anche sul nucleare e sul legittimo impedimento. Per quanto riguarda i referendum sull’acqua, il primo chiedeva di votare sull’abrogazione dell’articolo 23bis del cosiddetto decreto Ronchi, cioè sulla privatizzazione della gestione dei servizi idrici. Il secondo chiedeva se abrogare il comma 1 dell’art. 154 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale», limitatamente alla parte «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Quella norma stabiliva che la tariffa per l’erogazione dell’acqua dovesse essere calcolata prevedendo la remunerazione per il capitale investito dal gestore, fino a un massimo del 7 per cento. Di questa quota facevano parte sia i profitti sia gli oneri finanziari derivanti dai prestiti, e la sua riscossione non era collegata a nessun obbligo di reinvestire denaro nel miglioramento della qualità del servizio.

Le ragioni del sì e le ragioni del no

Il fronte del Sì sosteneva in sostanza che le norme allora vigenti incoraggiassero la privatizzazione dei servizi idrici, consentendo alle grandi aziende di aggiudicarsi la gestione di acquedotti, fognature e depuratori. Per i sostenitori del Sì il rischio era che l’ingresso dei privati portasse alla mercificazione dei servizi idrici, facendo prevalere la logica del guadagno all’interesse dei cittadini e dell’ambiente e quindi portando all’aumento delle tariffe di un bene come l’acqua che invece doveva restare fuori dal mercato. Il fronte del No vedeva nella gestione privata la possibilità di migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi idrici, nonché i conti pubblici nel momento in cui si fossero alleggeriti gli enti locali e lo Stato dalle spese. Per i sostenitori del No il decreto Ronchi realizzava di fatto una liberalizzazione del settore piuttosto che una sua privatizzazione e rendeva le società che si occupavano di servizi idrici più indipendenti dalle amministrazioni locali. In più, sempre per i sostenitori del No, i soggetti privati sarebbero stati gli unici in grado di poter garantire davvero investimenti ingenti e, di conseguenza, anche la qualità dei servizi idrici.

Una volontà rimasta «lettera morta»

«Questa vicenda parte in realtà nel 2007, quando raccogliemmo le firme per la legge di ripubblicizzazione della gestione delle reti idriche – racconta Mariano Mazzacani del Comitato referendario Acqua pubblica Brescia –. È da allora che la proposta di legge giace, immobile, in Parlamento». Ma un decennio dopo il referendum, con i Comuni sempre più in difficoltà economica e con investimenti urgenti e importanti da realizzare, questa battaglia è ancora attuale? I movimenti per l’acqua non hanno alcun dubbio: «Assolutamente sì, perché la volontà popolare è rimasta del tutto lettera morta e si parla ancora di gestione privatistica». Il processo, insomma, prosegue, in controtendenza con quanto avviene nelle grandi città europee dove l’acqua è stata ripubblicizzata. Perché a conti fatti l’acqua, essendo un bene indispensabile di cui tutti devono fruire, rappresenta un enorme business. Due, prevalentemente, le ragioni che enti locali e fazione pro partnership privata schierano ancora oggi sul banco: una gestione pubblica non sarebbe in grado di fare fronte agli investimenti e, quindi, le bollette per gli utenti sarebbero di gran lunga più salate. «La gestione privata - ribatte Mazzacani -, al contrario di quello che si può pensare, non è sinonimo di efficienza. Basta pensare alla dispersione idrica, risultata altissima anche in città dove A2A sta ricorrendo oggi a interventi importanti. Quello dei costi insostenibili, poi, è un tema falso: è il servizio stesso a ripagare tutti gli investimenti. Qui nessuno vuole tornare a prima del ’94, nessuno parla di gestione comunale, ma almeno provinciale sì».

Il referendum provinciale del 2018

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ACQUA PUBBLICA, IL DOSSIER

Il tema è ancora molto sentito a Brescia. Nel 2018 una nuova consultazione popolare ha ripreso la battaglia innescata con il referendum del 2011. Il quesito chiedeva ai bresciani di decidere se la gestione del servizio idrico integrato del territorio dovesse rimanere integralmente in mano pubblica, impedendo la partecipazione dei privati. «In quel caso l’obiettivo era bloccare l’ingresso di A2A in Acque Bresciane, un’operazione che tentava di essere promossa peraltro senza gara europea» spiega Mazzacani. Pur trattandosi di una consultazione consultiva, Brescia si era espressa in modo netto con una vittoria schiacciante del sì con il 96,6% dei voti. «Sì, ma il rischio è sempre dietro l’angolo - ricorda Mazzacani -. Siamo cioè riusciti a bloccare quell’operazione in quel momento specifico, ma non essendoci una normativa a tutela del bene pubblico da nessuna parte è stato sancito che quel 40% non sarà messo a gara. Anzi: si sta già tornando alla carica».

Qual è l’obiettivo di oggi per il movimento per l’acqua pubblica

«Una società privata ha come fine ultimo quello di generare utili» dice Mazzacani. E a chi ribatte che anche Acque Bresciane si regge sugli utili, il movimento per l’acqua pubblica bresciana risponde: «Certo, ma vengono distribuiti tra tutti i Comuni. Quel che si tenta di raggiungere, però, è altro ancora: l’obiettivo vero è arrivare alla realizzazione di un ente di diritto pubblico che reinvesta i guadagni nel servizio stesso, ovvero in opere e infrastrutture. E se i gestori privati, come spesso dicono, li usassero per fare ottenere vantaggi agli utenti, le bollette dei bresciani sarebbero dovute calare in questi anni almeno del 28%, ma così non è. In più tutti i grandi investimenti ormai diventati urgenti non sono mai stati realizzati negli ultimi vent’anni».

Le critiche dell’Europa a Brescia

Non a caso Brescia è nel mirino dell’Europa per le violazioni reiterate proprio sul fronte depurazione (oltre che sul versante smog). In particolare sono quattro le procedure di infrazione ad oggi aperte per l’Italia e la nostra provincia è inclusa nell’elenco con ben 66 agglomerati. Di questi, sono 21 i Comuni messi in mora (Bovegno, Brescia, Capriano del Colle, Collio, Corteno Golgi, Edolo, Esine, Isorella, Lodrino, Manerbio, Marcheno, Offlaga, Palazzolo, Paratico, Pontevico, Pralboino, Sabbio Chiese, San Gervasio Bresciano, Sellero, Ponte di Legno e Visano), mentre per 45 sono state aperte le procedure - non ancora arrivate a un verdetto - per il ricorso. Complessivamente si parla di un salasso che, tra depurazione e aria, «vale» 2,7 milioni di euro al giorno per un anno. E la causa sono proprio i mancati investimenti per rispettare le disposizioni europee.

 

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