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Gli anni ‘70 a Brescia tra la nascita di San Polo e l’ospedale negato

La città cresce e, anche se la curva demografica è in arresto, in quegli anni si delinea l’intervento urbanistico più rilevante
I primi cantieri di San Polo nel 1979 - © www.giornaledibrescia.it
I primi cantieri di San Polo nel 1979 - © www.giornaledibrescia.it
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Cresce, cresce, cresce. Brescia anche nella seconda metà degli Anni ‘70 si amplia. Se la curva demografica ha già evidenziato una prima battuta d’arresto, la necessità di case è ancora insistente e il contenimento della cementificazione ancora modesto. È in questo quadro che si delinea l’intervento urbanistico più rilevante del quinquennio 1975-’79, uno dei più audaci e dibattuti nei decenni a venire.

Una «Città satellite»

«San Polo diventa realtà». Titola così il Giornale di Brescia del 22 giugno 1978, 47 anni fa quasi esatti. La notizia è tra le prime sulla nascente «Città satellite», il maxi quartiere da 20mila anime immaginato come modello residenziale che ha nell’allora assessore all’Urbanistica in Loggia, Luigi Bazoli, il principale sostenitore e in Leonardo Benevolo il progettista. Il disegno della nuova espansione è affidato all’Istituto autonomo case popolari – Iacp, oggi Aler – accanto a cooperative e privati. Notizia del giorno è il varo del bando che mira a realizzare i primi 218 alloggi per un controvalore di 12 miliardi di vecchie lire. Il giorno precedente, del resto, lo stesso quotidiano ha mostrato un plastico di San Polo e illustrato le caratteristiche immaginate: le tre soluzioni immobiliari previste – case a schiera, a spina e torre – sono già tutte rappresentate nel lotto iniziale del «primo esempio in Italia di realizzazione di un intero quartiere di edilizia pubblica».

Il progetto

Il progetto è molto più ampio: un investimento da 100 miliardi per oltre 2.000 abitazioni (poco più di mille con fondi pubblici) e tutti i servizi a corredo (scuole, negozi, ecc.). Gli intenti sono chiari: «San Polo non sarà un ghetto ma una vera e propria città» spiega lo stesso Benevolo dalle colonne del GdB il 12 dicembre ’77, nel quadro di un dibattito che sul quotidiano contrappone sostenitori e detrattori del piano. Il cui esito, purtroppo, non fu quello auspicato, come raccontano le cronache dei decenni successivi. Emblema del destino disatteso di San Polo è la Torre Tintoretto: sorta fra il 1984 e il 1987 e abbattuta meno di 40 anni più tardi coi suoi 18 piani e 195 alloggi, lascia ancora aperto un vulnus urbanistico da colmare.

Ma la spinta edilizia è forte, sostenuta anche da leggi apposite. Se i titoli delle cronache di provincia ne danno conto in quantità (con interventi che spaziano da Chiari al Garda), interessante è il caso documentato il 4 giugno ’78: «Unico esempio di case popolari» titola la fotonotizia dedicata a «Manerbio Uno», complesso realizzato dalla «prima – e l’unica finora – cooperativa per l’edilizia economica e popolare che ha utilizzato le leggi sul diritto di superficie realizzando 36 appartamenti in via Marx». Quasi a segnare un passaggio d’epoca nella storia edilizia arriva il 23 novembre ’78, la scomparsa di padre Marcolini, padre dei villaggi popolari disseminati in tutto il Bresciano.

Addio a Brescia Sud 

Nella città che cresce ancora, tuttavia, si prospettano ulteriori necessità di mobilità e servizi: al nuovo cavalcavia ferroviario Kolbe varato in fondo a via Mantova il 18 febbraio ’77 e costato 1,14 miliardi di lire, si assommano la nascita della sezione distaccata del Tar Lombardia (16 luglio ’77) e l’ampliamento di vari reparti del Civile, il cui Satellite – concluso nel 1972 e ora destinato a demolizione nell’ambito della maxi riqualificazione da 500 milioni – si popola di nuove unità. A proposito di sanità cittadina: niente da fare per l’atteso ospedale di Brescia Sud, cui Milano pone il veto il 21 dicembre ’78. «La Regione insegna come si fa e si disfa la programmazione» sferza il Pirellone Giuseppe Grangiotti, futuro caporedattore, nell’articolo che fa sintesi della vicenda il 20 gennaio seguente.

Un plastico di San Polo
Un plastico di San Polo

Non senza costi: «La delibera regionale getta al vento il miliardo finora speso dall’Umberto I (lo sviluppo del progetto era stato affidato all’ospedalino dei bambini, ndr) per acquisire l’area a San Polo (400 milioni) e per la progettazione (570 milioni)». Obiettivo del nuovo nosocomio era anzitutto alleggerire il Civile («la struttura ospedaliera più mastodontica della Lombardia») e dotare di una struttura sanitaria la nuova Città satellite. Per un ospedale negato, però, se ne apre uno nuovo: è il Montecroce di Desenzano, inaugurato l’8 gennaio ’78 alla presenza del bresciano Mario Pedini (ministro per i Beni culturali ancora per otto giorni nel governo Andreotti III) che auspica la nascita di un ateneo bresciano a garanzia del dialogo fra ricerca e sanità territoriale. Il Montecroce, per inciso, è lo stesso ospedale il cui futuro è ora – meno di 50 anni dopo – in bilico, tra abbattimento e ristrutturazione.

Nodo aeroporto

Dopo anni di grande fermento, meno imponente si fa lo sviluppo infrastrutturale per la mobilità: al varo della tangenziale Sud (1975) fa da controcanto la fallita ipotesi di aeroporto civile. A sancirla è lo stesso Pedini che, da monteclarense, stigmatizza sulle pagine del GdB nel ’79 come l’essersi fatti battere sul tempo dai bergamaschi sia un peccato. Mentre già il 16 aprile ’78 in un articolo di Manuel Vigliani (futuro vice direttore) si preconizzava un possibile sviluppo in ottica cargo dello scalo bresciano. Un futuro ancora in attesa di essere scritto.

A chiudere il quinquennio un ulteriore tassello di quella vasta opera nata con Brescia Due e poi estesa all’intera città che è la rete del teleriscaldamento: viene attivata la centrale policombustibili di Lamarmora. A inaugurarla il 30 settembre ’79 c’è il futuro capo dello Stato Francesco Cossiga, allora presidente del Consiglio che porta Brescia a modello in Italia. Ciò nonostante, ricostruisce la cronaca, non gli sono risparmiate critiche dalla Loggia, sindaco Cesare Trebeschi in testa. La chilometrica rete sotterranea è stata sviluppata (e finanziata) «nella più assoluta indifferenza ministeriale e regionale».

Sopralluogo all'odierna via della Maggia
Sopralluogo all'odierna via della Maggia

Cinema, fumo vietato

Tra i principali cambiamenti del costume, un cenno merita il varo della prima norma antifumo. «Dal 2 giugno non si fumerà più nei locali e sui mezzi pubblici» titola il GdB del 19 maggio ’76. A dispetto delle previsioni, la nuova norma trova ampi consensi tra i bresciani, come si legge il 2 giugno: «Una legge intelligente e di indubbia utilità sociale (gli stessi proprietari di locali notturni e cinematografici preferiscono avere qualche cliente in meno e vedere risparmiate le moquettes e le fodere dei divani)». Sono i cinema e i dancing (così allora le balere) a temere di più.

La pagina del GdB del 3 giugno 1976
La pagina del GdB del 3 giugno 1976

Eppure la «breve inchiesta» condotta dal quotidiano dopo l’entrata in vigore consente di parlare di un provvedimento «accolto responsabilmente dai bresciani». Un dato tuttavia dà conto di come la misura antifumo (sacrosanta) assommata ad altre criticità del periodo concorse ad accelerare la crisi del settore delle sale cinematografiche: alla chiusura di diverse strutture, si aggiunge nel ‘76 un calo drammatico dei biglietti staccati. Circa 600mila in meno quelli venduti nel Bresciano rispetto al ’75.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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