Valsabbia

Schianto a Rezzato, quella corsa in pantofole sull’asfalto gelato

Lo strazio delle famiglie delle vittime all’arrivo sul luogo del terribile incidente
I soccorsi. Mezzi e uomini sul luogo dell’incidente - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
I soccorsi. Mezzi e uomini sul luogo dell’incidente - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
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In pigiama, con la vestaglia e i capelli ricci e neri raccolti in una coda morbida sulla nuca. È vestita come quando ci si sente al sicuro, nell’intimità di un salotto, quando una telefonata, poco dopo le 23, la strappa dal tepore di casa. Fuori si gela, la temperatura è di un paio di gradi sotto lo zero, ma non c’è tempo per infilare un giubbotto. Bisogna andare, arrivare in tempo.

Un viaggio disperato, dalla Valsabbia verso Brescia, all’altezza della strada che le hanno indicato. Poco dopo il distributore di benzina, a Rezzato, ecco i lampeggianti blu. È una strada che ha fatto mille volte, non è possibile. Ci sono molti uomini in divisa, la colonna di macchine con le luci di emergenza accese. E allora giù dall’auto, correndo con le pantofole sull’asfalto. Pantofole che pestano vetri frantumati e pezzi di lamiera. Pochi metri più avanti suo fratello è sdraiato a terra, morto. Insieme a altri quattro ragazzi.

Chi la vede arrivare cerca di fermarla, lei si divincola. Sgattaiola oltre il cordone di persone arrivate subito dopo lo schianto e supera il nastro bianco e rosso teso tra i due guardrail. La vista di quello che resta dell’auto è una pugnalata. Le manca il respiro. Un rottame accartocciato, completamente distrutto nello schianto. Se non avesse le ruote, sarebbe difficile dire che è stato un’automobile. Tra i pezzi di lamiera, c’è un paio di scarpe da ginnastica nere. Sono nuove.

«Shaqiq, Shaqiq. Mio fratello, mio fratello» grida rivolgendosi al cielo e cade in ginocchio. Un urlo straziante, mentre il petto è scosso dai singhiozzi e i palmi picchiano quel maledetto asfalto. Qualcuno cerca di portarla via, o almeno convincerla a girare le spalle. Lei, come tutti i membri della sua famiglia, vuole restare e vuole vedere. Non ci crede ancora. Si sgola sempre più forte, forse lui può ancora sentirla? Sotto quella coperta termica diventata sudario, che solo la madre ha osato sollevare per accarezzarlo l’ultima volta, c’è il fratello con cui è cresciuta.

Attorno, le scene di disperazione si moltiplicano. Arrivano dalla valle, la processione di una comunità intera: parenti, amici, vicini di casa, tutti di origine marocchina. Le madri, le zie, le nonne, le cugine: indossano l’hijab, il velo sulla testa, e camminano in piccoli cerchi battendosi i pugni sul petto. Fanno telefonate concitate, in arabo, e alternano un pianto disperato a una straziante preghiera funebre. Qualcuno sul posto non parla quella lingua, ma per capire non serve. Il nome di Allah è invocato di continuo in un canto squillante, una nenia che sfida il buio e stringe lo stomaco.

Un uomo, pochi metri indietro, risponde a una chiamata e mette in vivavoce. È a piedi nudi, indossa solo delle ciabatte di gomma, il corpo è contratto dall’angoscia e dal freddo della notte di gennaio. È molto alto, ma le spalle sono piegate dal dolore. All’altro capo del telefono una voce femminile disperata, chiede una conferma. «L'ho visto con i miei occhi, è lui» sussurrerà in risposta, stringendo il pugno steso lungo il fianco fino a far diventare bianche le nocche. Con le guance rigate di lacrime, rivolgendosi ai soccorritori dell’ambulanza, aggiunge: «Aveva solo venti anni. Aveva appena firmato un contratto di lavoro».

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