Strada facendo

Il 2 novembre e il culto dei morti

Un rito che parla sempre più dei vivi, anche se non ne siamo consapevoli
Una signora porta fiori al cimitero Vantiniano - © www.giornaledibrescia.it
Una signora porta fiori al cimitero Vantiniano - © www.giornaledibrescia.it
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Ci apprestiamo a vivere le giornate del ricordo, attraversando in molti casi buona parte del territorio provinciale per raggiungere le tombe delle persone care. Si ripetono e rinnovano gesti, da percepire quali proiezioni di intimi sentimenti, riassumibili nella definizione «culto dei morti».

Il ricordo va al soggiorno che la nonna materna, Maria, nell’attesa dei primi di novembre trasformava in una distesa di lumini e di santini funebri con decine di volti, emblemi di vite vissute, affetti, amicizie, inghiottiti dal silenzio dell’eternità. Forse non sbagliava quell’anziano conoscente che tempo fa mi disse con aria disincantata: «Il culto dei morti, in fondo, parla sempre dei vivi: del modo in cui affrontiamo l’assenza, del bisogno di sentirci ancora legati a chi non c’è più». E se guardiamo agli inizi del Novecento e ai giorni nostri, ci accorgiamo che quel legame si è trasformato parecchio, pur restando profondamente presente.

Agli albori del secolo scorso, in un contesto perlopiù contadino, con il ritmo della vita scandito dalle stagioni e dalla comunità, la morte non era un evento nascosto: avveniva quasi sempre in casa, davanti ai familiari, con i vicini che entravano e uscivano portando conforto e rituali condivisi. I defunti venivano vegliati: candele, rosari, mormorii senza interruzione. Le donne piangevano in modo codificato, quasi fossero portavoce del dolore collettivo. Le fotografie post-mortem sono ancora una pratica diffusa: un ultimo ritratto, dignitoso, da custodire.

Si credeva molto nel rapporto costante con l’aldilà: il due novembre non era solo una ricorrenza, era un appuntamento reale con chi riposava al cimitero. Si portava il pane ai morti, si apparecchiava un posto per loro. La morte era vicina, tangibile, un capitolo naturale della vita. Oggi invece la morte è spesso medicalizzata e delegata: avviene in ospedale, si preferisce proteggerla, tenerla fuori dal quotidiano. Il lutto diventa più silenzioso, intimo, a volte quasi rimosso. I funerali sono più rapidi, standardizzati, meno comunitari.

Eppure, la nostra relazione con chi se ne va non si è affatto dissolta: si è spostata. Ci sono i cimiteri digitali, i profili social che rimangono aperti come memoriali, le foto e i video che continuano a parlare come se lo fossero ancora. Le urne decorative entrano nelle case. Si diffonde la cremazione, il ricordo diventa una cosa che curiamo a modo nostro, con creatività ma anche con solitudine. Se ci pensiamo, si tratta di due modi diversi di non lasciar andare. All’inizio Novecento la comunità ti sorreggeva e ti aiutava a elaborare il dolore.

Oggi siamo più liberi di costruire il nostro rituale, ma molto più soli nell’affrontarlo. E in mezzo? Un unico filo che non si è spezzato: il desiderio di tenere i morti dentro la vita, continuare a farci accompagnare da loro. Perché il lutto, certo è la consapevolezza della fine, ma insieme un atto di memoria e amore che continuiamo a vivere interiormente, quali che siano le forme esteriori di manifestazione. «…Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri, e involve tutte cose l’obblio nella sua notte…», scriveva Ugo Foscolo nel suo celeberrimo carme «Dei Sepolcri», che in questi giorni di velata tristezza vale la pena di rileggere e meditare.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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